La 36° edizione del Torino Film Festival, svolta dal 23 novembre al 1 dicembre, ha offerto la consueta varietà di spunti e la tradizionale eterogeneità di generi e idee di cinema, confermando la sua capacità di stare in equilibrio tra le esigenze degli appassionati e degli addetti ai lavori senza avere un’aurea eccessivamente cinefila e quelle del pubblico cittadino senza cedere alle trappole del glamour e dell’apparenza.
In questo modo, per fare alcuni esempi dei percorsi proposti, coloro che vogliono osservare le tendenze più innovative (talvolta) e radicali (talaltra) del cinema sperimentale possono affidarsi alla sezione “Onde”, chi vuole affrontare i generi nella loro versione più estrema, dura e innovativa può dare fiducia alla sezione “Afterhours”, mentre chi cerca la qualità in un impianto più tradizionale e “classico” ha a disposizione il ricco fuori concorso “Festa Mobile”. Non sono mancati ovviamente i documentari, i cortometraggi e soprattutto le retrospettive, mentre la sezione principale, quella del concorso, ancora una volta ha dimostrato, aldilà dei film riusciti – Atlas del tedesco David Nawrath, efficace noir introspettivo e d’atmosfera sulla paternità sfuggita, rimpianta e inseguita, o il pur irrisolto Wildlife, algido melodramma famigliare raccontato dal punto di vista di un adolescente esordio alla regia dell’attore Paul Dano –, di essere la parte meno sorprendente, più conservatrice e in qualche modo più ovvia della manifestazione.
Paradossalmente in quanto dedicata a giovani registi al massimo alla loro terza opera.
Come è inevitabile quando si parla di festival generalisti, l’offerta vasta e variegata, la possibilità di scegliere percorsi anche opposti tra loro e la qualità inevitabilmente altalenante rendono difficile trovare dei fili conduttori, soprattutto tematici. Specificato ciò, l’essenza del Torino Film Festival targato Emanuela Martini, direttrice dal 2014, risalta con chiarezza. Traspare anche nel magma dell’offerta variegata una coerenza di fondo. È questo il punto di forza della manifestazione torinese soprattutto se paragonata ad altri eventi simili, a partire dalla Festa del Cinema di Roma, che continua a non trovare una connotazione specifica diversa da quella della rassegna mondana ben foraggiata a livello economico e rivolta a un’élite culturale e cittadina.
La coordinata principale del TFF è probabilmente quella del “genere cinematografico”. C’è un’attenzione particolare al mondo dei generi, in particolare di quelli in qualche modo più “vituperati” e capaci di rielaborare carsicamente tensioni e paure più vaste come l’horror o la fantascienza (ricordiamo la retrospettiva delle ultime due edizioni dedicata alle distopie), alle loro sfaccettature, alle loro evoluzioni e agli sguardi sul mondo che offrono. Horror, commedie nere, noir e fantascienze distopiche attraversano le varie sezioni, trovando in particolare la loro casa in “Afterhours”, dove quest’anno ha spiccato High Life di Claire Denis. Il film è una rilettura molto personale della fantascienza distopica che mette in scena una realtà dalle connotazioni quasi post-umane dove gli istinti, i piaceri, l’erotismo, la maternità e i corpi appaiono come simulacri, pure parvenze esteriori e vuote, semplici ricordi di ciò che erano e significavano. È un film allo stesso tempo crudo, con improvvisi scoppi di violenza cronenberghiana, e rarefatto, estremamente suggestivo e quasi dolce per la bellezza pura di molte sequenze così come terrorizzante per la plausibilità delle numerose chiavi di lettura offerte sul futuro dell’umanità.
Sempre in Afterhours e più interno all’evoluzione del genere e alla riflessione “metacinematografica” è invece Mandy di Panos Cosmatos, un horror che chiaramente eccede; nella fantasia visiva barocca e all’insegna dell’horror vacui, nella violenza esplicita come nell’ironia scatenata e nell’assimilazione e rielaborazione dei numerosi sottofiloni interni al genere. È un film che può piacere fino all’entusiasmo come respingere con altrettanta forza, ma che ad ogni modo riflette sulla capacità attuale delle immagini di raccontare una storia e che soprattutto combatte la concezione del film realizzato in maniera discreta e professionale a mo’ di compitino; categoria che nell’horror, genere eversivo per eccellenza, contemporaneo sta diventando sempre più dominante.
Un’altra caratteristica fondante delle ultime edizioni del Torino Film Festival è la maniera con cui le retrospettive storiche dialogano con la contemporaneità delle altre sezioni, contribuendo così alla coerenza di fondo della manifestazione. Quest’anno le retrospettive erano dedicate a Jean Eustache – uno dei protagonisti principali della tarda nouvelle vague e autore del capolavoro La mamain et la putain e del quasi capolavoro Mes petites amoures – e alla coppia Michael Powell & Emeric Pressburger. Due esempi, il primo nell’ambito del cinema d’autore europeo e i secondi in quello dei generi, di autori che in qualche modo sono andati oltre i canoni di riferimento, innovando e rinnovando, e che per questo sono rimasti un po’ nelle zone d’ombra delle ricostruzioni storiografiche. Significativo in particolare l’esempio della coppia di registi europei (Powell era britannico ed Emmeric ungherese) non a caso riabilitati solamente nella stagione della New Hollywood; la ricerca formale e visiva come la capacità di sondare le profondità, comprese quelle più folli e sconvolgenti, dell’animo umano attraverso il melodramma (Narciso nero), il “ballet-film” (Scarpette rosse) o il thriller (L’occhio che uccide, diretto dal solo Powell) costituivano una poetica per i tempi estremamente iconoclasta, anticonformista e preveggente, decisiva nel tracciare strade percorse in seguito.
Esattamente l’obiettivo che si pongono molti film, perlopiù – come detto – di genere, nella visione di Emanuela Martini e del suo TFF, a prescindere dalla qualità altalenante delle singole opere e delle inevitabili problematiche che presenta una selezione quantitativamente troppo vasta. Problema questo che interessa tutti i festival di un certo livello, quelli con identità forte come il Torino film Festival quanto quelli senza.