«Roma»

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Roma [id., Messico 2018]
REGIA: Alfonso Cuarón
CAST: Yalitza Aparicio, Marina De Tavira, Diego Cortina Autrey, Carlos Peralta, Daniela Demesa, Marco Graf, Veronica Garcia
SCENEGGIATURA: Alfonso Cuarón
FOTOGRAFIA: Alfonso Cuarón
MUSICHE: Steven Price
Drammatico, durata 135 minuti

In questi giorni nelle sale c’è l’ultimo Leone d’Oro, Roma di Alfonso Cuarón, prodotto da Netflix e distribuito nei cinema prima di sbarcare definitivamente sulla piattaforma online.

La vittoria veneziana dell’ultima opera del regista messicano ha creato una serie di polemiche legate all’opportunità di premiare un film non prodotto per il grande schermo. Polemiche sostenute soprattutto dagli esercenti, che il successo ottenuto nelle sale interessate ha in qualche modo messo in discussione. Polemiche peraltro che, allo stesso tempo, hanno toccato più di un problematico nervo scoperto della filiera cinematografica del nostro Paese e di questo momento di passaggio da una fruizione più tradizionale della settima arte a un’altra che interessa media più o meno nuovi. Dibattito in cui conservatorismi e posizioni di rendita hanno convissuto con preoccupazioni più legittime e problematiche, con tutte le inevitabili sfumature e incertezze dei momenti di passaggio e trasformazione. Sarebbe interessante affrontare più nel dettaglio la questione, se non rischiasse di togliere l’attenzione dal film, che invece merita eccome di essere visto e affrontato nelle sue emozionanti specificità.

Roma è il quartiere residenziale altoborghese di Città del Messico dove crebbe Alfonso Cuarón, il quale, dopo aver immaginato il futuro prossimo nella fiaba distopica I figli degli uomini, e dopo aver viaggiato nello spazio e nelle paure dell’ignoto più profonde in Gravity, fa un passo indietro nel passato e compone un fluviale e autobiografico affresco di vita famigliare che rielabora la sua infanzia.

Roma è una saga intimista e privata capace però di apparire magniloquente e solennemente elegiaca, intimamente epica, dove il virtuosismo stilistico e la regia barocca e aggressiva tipiche del regista messicano sono meno urlate di altre volte, ma sono altrettanto evidenti e decisive.

Il film è girato in un luminoso e terso bianconero in cui anche nei momenti più tragici le luci prevalgono sulle ombre e che dà il tono della rielaborazione lucida e nostalgica, elegiaca e amara, alle non numerosissime gioie e ai dolori di un nucleo familiare che nella prima metà degli anni Settanta viveva in un ampio appartamento nel quartiere che dà il titolo al film. Perdite, sparizioni e crisi segnano il passo e allo stesso tempo rafforzano la speranza, i legami e la fraternità.

Protagonista è Cleo, la domestica di casa. Cuarón principalmente racconta la sua “storia” ed è dal suo punto di vista che osserviamo i drammi, l’evoluzione e le nuove consapevolezze del nucleo famigliare, soprattutto grazie a un gioco di specchi, a una condivisione di dolori, sconfitte e rinascite che superano i confini di classe e i ruoli prestabiliti, con la madre di famiglia.

Roma è infatti un film femminile dove i maschi adulti compaiono pochissimo, sono moralmente piccoli e non degni di essere davvero approfonditi e capaci di essere decisivi solo nel dolore. Non a caso è a loro che viene dedicata la maggior parte dei momenti da commedia, tra l’ironico e il ridicolo, che saltuariamente fanno capolino nella cornice melodrammatica di fondo (per esempio, il tormentone degli escrementi di cane e la sequenza dell’allenamento di arti marziali).

Intanto, la storia del Messico, tra terremoti e sanguinose rivolte di piazza, fa capolino, senza però mai davvero prendere il sopravvento. Cuarón rimane infatti ancorato al privato e all’intimo, suo e dei personaggi; non si stacca dalla rielaborazione del suo passato e dal dramma della protagonista e di chi la circonda e legge il contesto solo in relazione ai suoi effetti più immediati sui personaggi. Si chiude negli spazi interiori e lascia, in qualche modo come in Gravity, al cinema puro e alla sua capacità di essere affabulazione, epica ed emozione il compito di allargare lo sguardo e di rendere l’intimo universale.

La valenza politica di Roma quindi non è tanto da cercare nella rilevanza degli avvenimenti del contesto e della storia del Messico, che pure, anche se perlopiù “tra le righe”, agiscono in maniera decisiva sull’intimo delle protagoniste (significativo in questo senso è il personaggio di Fermin, l’appassionato di arti marziali che usa i sentimenti di Cleo e che si scopre in una sequenza decisiva del film essere un violento membro delle forze più repressive e reazionarie). La valenza politica del film è semmai da cercare nel ruolo della donna, nella sua centralità di icona, di simbolo e di testimone, attivo (la salvezza e la sopravvivenza del privato della famiglia e dell’intimo più soggettivo) e passivo (la capacità anche quasi “metafisica” di assumere su di sé le conseguenze del contesto).

Il risultato complessivo è di un’intensità rara che, banalmente, emoziona e per lunghi tratti meraviglia dando, nonostante la produzione Netflix – e questo è un aspetto molto interessante non sfiorato dalle polemiche a cui accennavamo all’inizio –, la sensazione quasi tangibile della necessità del grande schermo e del cinema più tradizionalmente puro e magniloquente.

Gli autori

Edoardo Peretti

Edoardo Peretti è nato nel 1985 sulla sponda lombarda del Lago Maggiore ed è stato adottato da Torino negli anni dell'università. Laureato in storia contemporanea collabora, come critico e giornalista cinematografico, con periodici on-line e cartacei (Mediacritica, Cineforum, L'Eco del nulla, Cinema Errante e Filmidee sono le principali collaborazioni). Ha lavorato per festival ed enti del settore e cura rassegne ed eventi, in particolare con l'Associazione Museo Nazionale del Cinema e con l'associazione Switch On.

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