- LA DONNA DELLO SCRITTORE (TRANSIT, Germania/Francia 2018)
- Regia: Christian Petzold
- Cast: Frank Rogowski, Paula Beer, Godehard Giese, Maryam Zaree, Barbara Auer, Matthias Brandt
- Sceneggiatura: Christian Petzold
- Fotografia: Hans Fromm
- Montaggio: Bettina Böhler
- Musiche: Stefan Will
- Melodramma/drammatico, 101 minuti
Il significativo titolo originale de La donna dello scrittore, terzo film del regista tedesco Christian Petzold – uno dei più interessanti protagonisti del cinema europeo contemporaneo – a essere distribuito in Italia, è Transit, il «transito».
L’indefinitezza, la precarietà e la labilità sono del resto le condizioni che caratterizzano ogni aspetto del film. Sono indefinite, come sospese e immobili e contemporaneamente in attesa di un agognato mutamento, le condizioni e i sentimenti, anche quando forti, dei personaggi; sono labili le loro identità, quelle vere e quelle costruite; e precarie sono le vicende raccontate. In fin dei conti, tutto ciò che vediamo e ascoltiamo è frutto di una condizione transitoria, vaga e sfuggente.
Petzold gioca su più piani narrativi per raccontare di un cittadino di origine tedesca che fugge da Parigi poco prima della liberazione della città, raggiungendo Marsiglia e prendendo l’identità di uno scrittore, anch’esso tedesco e fuorilegge, morto nella capitale francese. Nella città portuale aspetta il pass per fuggire in Messico, vivendo intanto la vita e gli affetti dello scrittore ed entrando in contatto con esistenze in fuga e clandestine.
Questa è la sinossi più semplice e sintetica possibile di un film che in realtà ha una complessità enorme di scambi, incroci, maschere, desideri, rapporti e identità. Non vale la pena anticipare altro della trama, se non un dettaglio decisivo: non siamo nel 1945 e non assistiamo alle rese dei conti di fine seconda guerra mondiale. Siamo nel presente, che riecheggia nelle scenografie e negli ambienti. O meglio ancora; è come se fossimo in un “non tempo” anch’esso indefinito dove i dettagli chiarissimi del contemporaneo fanno da sfondo a una vicenda emblematica di 70 anni fa. Dove passato e presente si mischiano e si richiamano, annullandosi, esattamente come accade al falso, al reale e al plausibile. Dove, per esempio, il contesto bellico offre echi e rimandi inquietanti alla questione attualissima dell’emigrazione e del razzismo, e gli accenni ai campi di concentramento creano nelle menti dello spettatore altrettanto angosciosi riflessi sui campi profughi.
Non c’è però la minima ombra di didascalismo nel film di Christian Petzold. Transit/La donna dello scrittore parla dell’oggi apparentemente ignorandolo, inglobandone gli aspetti più esteriori e di superficie in una narrazione decontestualizzata e chiaramente artificiosa – decisive sono anche le riflessioni sulla natura della letteratura e della finzione – e nella cornice di elegante melodramma che molto chiede alla sospensione dell’incredulità.
Il cinema del regista tedesco è del resto tutt’altro che realista. Non segue la tradizione naturalista e arrabbiata di certo cinema d’autore europeo che trova i suoi alfieri nei vari Loach e Dardenne, tanto è forte la sua natura romanzesca e tanto è evidente la sua sostanza quasi metafisica. Il suo è un cinema popolato da “fantasmi”, da entità irrilevanti e sfuggenti costrette all’indefinitezza e alla finzione dall’evolversi della Storia con la esse maiuscola, dalla sua indifferenza e dal suo cinismo, questi sì immutabili nei decenni. Una caratteristica, questa dei personaggi che sembrano “apparizioni” e come tali si comportano, ancora più evidente ne Il segreto del suo volto (2013), precedente e bellissimo film del regista tedesco ambientato tra le rovine di Berlino nell’immediato dopoguerra e nel quale emergevano il trauma e la coscienza macchiata di un’intera nazione.
I cortocircuiti tra passato e presente, tra realtà vaga e finzione altrettanto traballante, tra le varie identità reali e costruite acquistano così un senso politico e parlano a viso aperto della contemporaneità proprio per questo motivo; per come il film suggerisce, anche con un pizzico di nichilismo, l’immutabilità cinica e distaccata della Storia con la esse maiuscola, la costanza della banalità del male e della precarietà del bene e la conseguente difficoltà nel costruire e difendere identità e sentimenti.
Petzold tesse tutti questi fili con una regia assolutamente limpida, lineare e classica, pure un po’ “vecchio stile”, riassumendo la complessità di fondo di Transit con assoluta semplicità e senza fronzoli né virtuosismi, realizzando quindi anche a livello formale un film sotto certi punti di vista “fuori dal tempo”, assolutamente duro, efficace e attuale. È per esempio impossibile non provare la stessa vergogna di chi nel film, in attesa di fuggire, abbassa gli occhi davanti a una deportazione, dopo aver tirato un sospiro di sollievo per il fatto che non sia toccato a lui.