Contro l’antropocentrismo. Il creato non è solo per l’uomo

Volerelaluna.it

01/08/2023 di:

Nell’Operetta morale di Giacomo Leopardi intitolata Dialogo di un folletto e di uno gnomo, allo gnomo che, spedito da suo padre «a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno», il folletto risponde che «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». E allo gnomo che, incredulo, chiede: «Ma come sono andati a mancare quei monelli?», spiega: «Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male». «Ben avrei caro – replica lo gnomo – che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli». Al che il folletto aggiunge: «Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagattella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini della terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse». E allo gnomo che ironicamente chiosa: «Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?», il folletto risponde: «Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano». «In verità – commenta lo gnomo – che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci». «Ma i porci, secondo Crisippo, – conclude il folletto – erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime invece di sale».

Giacomo Leopardi compose le Operette morali tra il 1824 e il 1832. In questo dialogo connette l’estinzione della specie umana con l’antropocentrismo, prefigurando, con duecento anni d’anticipo, ciò che si paventa possa compiersi ai giorni nostri in conseguenza della crisi climatica, delle zoonosi e di una guerra nucleare. La sua critica ai rapporti di dominio e sfruttamento instaurati dalla specie umana nei confronti degli altri viventi non si basa su motivazioni di carattere etico, ma sulla loro irrazionalità: come può una specie, per di più numericamente limitata (ai suoi tempi più che ai nostri) pensare che tutte le altre specie viventi non abbiano valore in sé stesse e la loro unica funzione sia soddisfare le sue esigenze e le sue voglie? In questo dialogo il collegamento tra l’antropocentrismo e l’estinzione della specie umana scaturisce da un’intuizione poetica – i veri poeti si riconoscono dalla loro capacità di percepire in anticipo ciò che diventerà chiaro in un futuro più o meno lontano – ma non da un’analisi scientifica, che sarebbe maturata solo mezzo secolo dopo, a partire dagli studi sull’ecologia, la disciplina che studia i rapporti di reciproca interdipendenza degli organismi viventi tra loro e con i fattori abiotici dei luoghi in cui vivono, avviati nel 1866 dal biologo, zoologo, filosofo e artista tedesco Ernst Haeckel. Da questi studi maturò la consapevolezza che, se gli esseri umani si comportano come se non fossero inseriti in questa trama di relazioni e pensano di poter ricavare dei vantaggi a scapito di altre specie viventi, o non si preoccupano se la soddisfazione delle loro esigenze altera gli equilibri tra i fattori abiotici, si innesca una serie di conseguenze a catena che si ripercuotono negativamente anche sulla loro vita.

Le pandemie che negli ultimi cento anni si sono diffuse nella specie umana con alti tassi di mortalità, sono state causate da virus che le sono stati trasmessi da animali selvatici, costretti a trasferirsi in territori antropizzati perché le foreste primarie in cui vivevano erano state abbattute per rendere edificabili o agricoli i terreni che occupavano. La ricerca di un maggior benessere per gli esseri umani, perseguita infliggendo una sofferenza a quegli animali, ha generato sofferenza tra gli esseri umani. Analogamente l’incremento delle emissioni di anidride carbonica, derivanti dalla combustione delle fonti fossili utilizzate per ottenere l’energia necessaria a far crescere la produzione e il consumo di merci, ha innalzato la temperatura della terra, accentuando i fenomeni meteorologici estremi che sconvolgono, con frequenza e intensità crescenti, gli insediamenti umani e causano numeri crescenti di morti. La ricerca di un maggior benessere materiale, perseguita con l’uso di tecnologie che hanno alterato gli equilibri nei rapporti tra i fattori abiotici, sta generando forme di sofferenza sempre più gravi tra gli esseri umani.

La concezione progressista della storia e la confusione, messa in luce da Pier Paolo Pasolini nei primi anni settanta del Novecento, tra il concetto di progresso, come costante avanzamento dell’umanità verso il meglio, e il concetto di sviluppo, che identifica il progresso con la crescita economica, hanno rafforzato negli esseri umani la convinzione che tutte le specie viventi, animali e vegetali, tutti i minerali accumulati sotto la crosta terrestre, tutte le forze naturali suscitate dal sole – l’energia termica, i venti e il ciclo dell’acqua – siano risorse messe a loro disposizione, che il progresso consista nella loro capacità di sfruttarle in misura sempre maggiore per soddisfare sempre meglio i loro bisogni e i loro desideri, che l’equità consista nella definizione di rapporti sociali che consentano a tutti i popoli e a tutte le classi sociali di usufruirne equamente. Ma questa concezione antropocentrica del mondo non tiene conto del fatto che, se per accrescere la disponibilità di risorse si accresce lo sfruttamento delle altre specie viventi e si sconvolgono gli equilibri che regolano i rapporti tra i fattori abiotici, si otterrà il risultato opposto di peggiorare le condizioni di vita della specie umana. E di avvicinarla all’estinzione.

Nel 1967, dopo un ventennio in cui nei Paesi industrializzati l’economia era cresciuta ininterrottamente, ma non era successo altrettanto nei Paesi che venivano definiti del Terzo mondo, Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio scrisse che bisognava perseguire una più equa distribuzione delle risorse naturali tra tutti i popoli, aumentando le quantità a disposizione dei popoli poveri, perché questa era una conseguenza intrinseca alla volontà di Dio di destinare la terra e tutto ciò che contiene all’uso della specie umana. Non di una parte soltanto di essa. Nelle sue parole la presunzione antropocentrica descritta da Giacomo Leopardi con amara ironia assumeva non soltanto una valenza etica, ma una connotazione religiosa. «“Riempite la terra e assoggettatela” (Gen 1, 28): la Bibbia, fin dalla prima pagina, ci insegna che la creazione intera è per l’uomo, cui è demandato il compito d’applicare il suo sforzo intelligente nel metterla a valore e, col suo lavoro, portarla a compimento, per così dire, sottomettendola al suo servizio. […] Il recente concilio l’ha ricordato: “Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, di modo che i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla carità” (Const. past. Gaudium et spes, n. 69)» (Pop. Pro., n. 22).

Abbagliati dalle luci dei progressi tecnologici, intorpiditi dall’abbondanza crescente di beni materiali, storditi dall’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive, gli esseri umani, nei trent’anni di crescita economica successivi alla fine della seconda guerra mondiale, non riuscivano a vedere il nesso causale tra i progressi nella sottomissione della natura e l’aumento delle malattie causate dalle sostanze di sintesi utilizzate per accrescere la produttività industriale e agricola, dalle emissioni inquinanti di molti processi produttivi, dalla crescita dei rifiuti liquidi, solidi e gassosi. La convinzione che «la creazione intera è per l’uomo […] che Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli», impediva a Papa Paolo VI e alla maggioranza dei suoi contemporanei di vedere, mentre avveniva davanti ai loro occhi, l’inizio del cammino verso l’esito che Giacomo Leopardi aveva pre-visto un secolo prima che cominciasse a diventare una prospettiva possibile.

Eppure in quegli anni a qualcuno non era sfuggito quanto stava accadendo. Nel 1962 la biologa e zoologa statunitense Rachel Carson aveva dato alle stampe il libro Primavera silenziosa, che ebbe un grande successo, fu tradotto in molte lingue e venne pubblicato in italiano nel 1964. In questo libro, analizzando il processo che aveva sterminato gli uccelli di passo in una piccola oasi faunistica realizzata da una famiglia di naturalisti in un terreno di sua proprietà, ne aveva attribuito la causa a un potente insetticida, il DDT, disseminato dagli aeroplani per uccidere gli insetti che danneggiavano le colture agricole circostanti. Risalendo lungo la catena alimentare, dalle foglie e dalle cortecce degli alberi irrorati dal pesticida, all’humus in cui si erano trasformati, ai lombrichi che se ne erano nutriti, agli uccelli che si erano nutriti di quei lombrichi, le concentrazioni dell’insetticida erano aumentate progressivamente, diventando letali per tutti i livelli trofici. Il fenomeno della bioaccumulazione dei pesticidi lungo le catene alimentari fu riscontrato anche in altre nicchie ecologiche. Il ritrovamento di molecole di DDT nel grasso dei pinguini dell’Antartide avrebbe confermato che le connessioni di tutte le forme di vita tra loro formano catene in grado di attraversare i continenti.

Poiché la specie umana è al vertice di tutte le catene alimentari, l’antropocentrismo, oltre a configurare un rapporto di sopraffazione nei confronti delle altre specie viventi, è una forma di suicidio collettivo inconsapevole. Nel grafico cartesiano riportato nell’aureo libretto Allegro, ma non troppo, l’economista Carlo Maria Cipolla misura sull’asse delle X i vantaggi e i danni che può ottenere un soggetto che compie un’azione nei confronti di un altro soggetto, di cui misura sull’asse delle Y i vantaggi e i danni che può riceverne. Se l’azione del primo soggetto è vantaggiosa per entrambi, si colloca nel quadrante in alto a destra. Chi la compie è intelligente. Se l’azione lo danneggia, ma avvantaggia l’altro, si colloca nel quadrante in alto a sinistra. Chi la compie è sprovveduto. Se l’azione lo avvantaggia, ma danneggia l’altro soggetto, si colloca nel quadrante in basso a destra. Chi la compie è un bandito. Se l’azione è dannosa per entrambi, si colloca nel quadrante in basso a sinistra. Chi la compie è uno stupido. L’antropocentrismo può rientrare nel quadrante dei banditi, perché può procurare alla specie umana dei vantaggi a danno di altre specie viventi, ma in un bilancio complessivo si colloca nel quadrante degli stupidi.

Le tesi sostenute da Rachel Carson nel suo libro furono criticate aspramente dall’industria chimica e dalle associazioni degli agricoltori, ma furono ascoltate con grande attenzione dal presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy e dai suoi collaboratori, che sulla loro spinta impostarono la legislazione ambientale del Paese. Il libro fu una pietra miliare per lo sviluppo e la diffusione della coscienza ambientalista in tutto il mondo, ma non riuscì a superare le mura del Vaticano.