Il futuro dell’abitare. Oltre gli slogan

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In questi giorni di epidemia da coronavirus, molti si interrogano su come pensare la pianificazione urbana per affrontare più serenamente il pericolo delle epidemie. Dando per assodato che tra le cause di diffusione del virus ci sono sicuramente l’ipersfruttamento delle risorse ambientali e un’errata organizzazione del territorio, è possibile pensare a soluzioni più responsabili e resilienti?

Alcuni architetti che fino a ieri sostenevano la “città densa”, la “città dei grattacieli” sviluppata in altezza, ora propongono la “città giardino”, dispersa nel territorio, come soluzione all’inquinamento e alla insalubrità delle città. Il problema però è che la città dei grattacieli e la città giardino sono due facce della stessa medaglia: cioè l’espressione dell’incapacità di guardare all’urbanizzazione come fenomeno complesso che mette in gioco ambiente, salute, lavoro, trasporto, residenza, servizi, beni culturali, spazio pubblico e privato.

La città dei grattacieli è affascinante per sfida tecnologica ed estetica, ma è una città disumana, basata sulla difficoltà di relazioni sociali, sulla mancanza di rapporto con la natura e con i contesti storici. La città giardino è molto bella sulla carta: tante casette nel verde, disposte intorno alla città, ma nei fatti, quando applicata diffusamente, si trasforma nell’incubo delle città americane dove sono necessarie ore e ore di trasporto giornaliero in auto su impressionanti autostrade inquinanti per raggiungere i luoghi di lavoro (ricordate il film “Un giorno di straordinaria follia, con Michael Douglas?).

La soluzione è sotto gli occhi di tutti, ma non la vediamo. Non è altro che lo sviluppo urbano storico europeo, articolato in città di medie dimensioni e piccoli borghi. Cosa c’è che non ha funzionato? Il fatto che abbiamo stravolto questo modello creando un ibrido insediativo senza senso, basato sugli aspetti peggiori della città dei grattacieli e della città giardino. Da un lato abbiamo disperso la residenza sul territorio (sprawl) con esteso consumo di suolo e inquinamento, dall’altro abbiamo concentrato i servizi di alto rango (scuole, ospedali, centri di ricerca) nelle città capoluogo, tralasciando i quartieri di periferia e i nuclei minori, dove sono stati chiusi i presidi sanitari e socio assistenziali decentrati. Abbiamo costruito enormi centri commerciali nelle periferie delle città, distruggendo il piccolo commercio locale e allontanando i cittadini dai centri storici. Abbiamo incentivano l’uso dell’automobile privata con autostrade e parcheggi urbani, abbandonando il trasporto regionale e interregionale su ferro e il trasporto pubblico locale.

Invertire questi processi non sarà facile, ma si può iniziare da subito a rendere più umano e sicuro il nostro territorio facendo tornare il quartiere e il borgo centri della socialità. Si può per esempio ripristinare il legame tra residenza (o luogo di lavoro), asilo e scuola di quartiere. Si possono ripristinare servizi sanitari intermedi e riqualificare spazi pubblici di prossimità (giardini, orti, edifici abbandonati) per farne luoghi di incontro, case protette per anziani e persone in stato di fragilità, residenze per studenti. Il telelavoro ci ha insegnato che si possono di molto ridurre gli spostamenti. Le attività artigianali, produttive e commerciali piccole e medie a scala di quartiere, messe in crisi dalla chiusura dovuta all’epidemia, vanno riaperte e incentivate.

Muoversi a piedi e in bicicletta deve diventare normale per la maggior parte dei cittadini. Non c’è nulla di utopistico in tutto ciò. Negli anni Sessanta a Torino l’architetto Franco Berlanda ha costruito un quartiere studiato per permettere ai bambini di andare a scuola a piedi, in sicurezza. Tutti i progetti INA Casa del “Piano Fanfani” prevedevano ambulatorio e centro civico a scala di quartiere (poi malauguratamente non realizzati). Pedonalizzare piazze e strade, moltiplicare i percorsi in sicurezza per pedoni e ciclisti è possibile a costi contenuti. È necessario liberare dal cemento le zone abbandonate e ridestinarle a verde e coltivazioni, riaccorpare i nuclei dispersi e quelli isolati dotandoli di servizi, collegamenti internet e trasporti sostenibili.

Un territorio multicentrico, più equilibrato, più verde, dove sono minori gli affollamenti e gli spostamenti di massa è un territorio più sano e più resistente alla diffusione di contagio. È necessario però pianificare in modo multidisciplinare, riaccorpando norme e saperi, riducendo la burocrazia, superando la frammentazione amministrativa e politica a scala locale che ha dimostrato tutta la sua inconsistenza operativa. C’è molto lavoro da fare, ma è possibile concretizzare questa visione, ambientalmente e socialmente responsabile, lontana dagli slogan e basata sulla concretezza dei fatti.

L’articolo è pubblicato anche su “Obiettivo Ambente – notiziario Pro Natura”

Gli autori

Guido Montanari

Guido Montanari (1957), architetto, ph.d., ha insegnato dal 1990 Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Torino. Autore di più di 130 pubblicazioni, ha condotto ricerche sulla storia dell’architettura e della città tra XVIII e XXI secolo. È impegnato sulla difesa dei beni comuni, della tutela del patrimonio, del suolo e del paesaggio. È stato presidente della Commissione Locale del Paesaggio di Torino (2005-2010), assessore all’urbanistica a Rivalta (2012-2016), vicesindaco e assessore alla pianificazione di Torino (2016-2019). Attualmente coordina le attività del gruppo di studio “Città e Territorio” dell’Unione Culturale di Torino. La sua ultima pubblicazione è Torino Futura. Riflessioni e proposte di un ex vicesindaco (Celid, Torino 2021).

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