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12/04/2019 di: Valter Giuliano
Alla “generazione Greta” consiglio un salto alla Triennale di Milano che ha scelto come tema “Broken Nature”. C’e tempo sino all’1 di settembre. Farà una liberatoria immersione nell’universo delle tematiche ambientali, prendendo coscienza delle regole che stanno alla base della vita sul pianeta terra e che l’Uomo, da almeno un centinaio di anni, ha ritenuto di poter ignorare.
Come verifichiamo ormai giorno dopo giorno con i cambiamenti climatici ciò non è stato senza conseguenze. Oggi diventa più che mai necessario rientrare nel rispetto delle regole che l’ecologia ci ha prospettato da fine Ottocento e che, tra biologia e fisica, impongono che anche l’economia vi si adegui.
Continuando a porsi al di sopra di esse la nostra specie rischia di andare incontro al suo suicidio. Il Pianeta sopravviverà, non ha affatto bisogno di noi. Non è la Terra che va salvata, è la nostra presenza su di essa.
Gli organizzatori della XXII Triennale di Milano, a partire dalla direttrice Paola Antonelli, sono convinti ci sia ancora spazio di intervento e affidano al design una funzione ricostituente per mettere «in luce oggetti e strategie, su diverse scale, che reinterpretano il rapporto tra gli esseri umani e il contesto in cui vivono, includendo sia gli ecosistemi sociali che quelli naturali. Broken Nature celebra la capacità del design di offrire una visione approfondita delle questioni chiave della nostra epoca, andando oltre la pia deferenza e l’ansia inconcludente».
Assumendo l’obiettivo della sopravvivenza umana, viene messo in evidenza il concetto di design ricostruttivo e si studia lo stato dei fili che collegano gli esseri umani ai loro ambienti naturali, alcuni sfilacciati, altri completamente tagliati. Tutto questo, se non altro, per pianificare un finale più elegante e assicurarci che le prossime specie dominanti ci ricordino con un minimo di rispetto: come esseri dignitosi e premurosi, se non intelligenti.
Che per il momento non lo siamo appare evidente sin dall’ingresso dove come un pugno sferrato, dritto dritto, allo stomaco due grandi schermi mettono a confronto pezzi di Pianeta che l’azione antropica ha profondamente trasformato; riduzione degli spazi naturali aggrediti dall’urbanizzazione, scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai danno l’esatta percezione di ciò che è in atto. Le immagini satellitari della Nasa Images of Change rivelano drammaticamente, e senza possibilità di contestazione, la situazione. Altrettanto impietosi sono le serie di dati della successiva Room of Change che pare quasi una moderna cappella affrescata ma le cui sequenze ci pongono di fonte alle interazioni tra noi e l’ambiente e l’arco delle trasformazioni tra passato e futuro. Non è che il primo impatto, per affrontare la parte della mostra tematica e la sezione delle partecipazioni internazionali, cui si aggiungono l’incursione nel mondo della sensibilità vegetale e l’affascinante colonna sonora del Pianeta, The Great Animal Orchestra, composta attraverso il paesaggio sonoro di sette angoli ancora selvaggi del mondo.
La mostra tematica ha selezionato un centinaio di progetti degli ultimi tre decenni, esempi di design, architettura e arte ricostituente provenienti da tutto il mondo: installazioni e oggetti nuovi ‒ Transitory Yarn di Alexandra Fruhstorfer, Nuka-doko di Dominique Chen e Whale Song di Google Brain ‒ e pietre miliari come l’Hippo Roller di Pettie Petzer e Johan Jonker, il progetto residenziale Quinta Monroy di Elemental, le 100 sedie in 100 giorni di Martino Gamper, ed Eyewriter low-cost di Zach Lieberman (e altri), un sistema open source di tracciamento oculare.
Progetti che hanno svolto un ruolo essenziale nella storia e nell’avanzamento del design, e che in alcuni casi hanno esercitato un impatto memorabile sulla società e sul modo in cui gli esseri umani interagiscono con il mondo che li circonda, sono, per la prima volta, inseriti in un unico dialogo e in un unico spazio, con l’obiettivo di svelare il potenziale del design come catalizzatore di cambiamenti sociali e comportamentali.
Numerosi gli argomenti che attraggono l’attenzione del visitatore.
Nella sezione dei cambiamenti climatici, ad esempio, le formazioni geologiche in parte prodotte da esseri umani, futuri fossili inquinanti dell’interevento antropogenico sui processi naturali; il Global Seed Vault, struttura di stoccaggio per campioni di semi raccolti dalle banche genetiche mondiali a 120 metri nel sottosuolo delle Svalbard, messo a rischio dallo scioglimento del permafrost; i progetti per catturare acqua e conservarla o per proteggersi dai raggi ultravioletti del Sole senza impiegare creme che compromettono l’acqua marina; la provocazione dell’Ice stupa nella regione del Ladakh, ghiacciao artificiale creato convogliando un torrente montano invernale, al di sotto della linea di gelo, che la pressione fa esplodere in un flusso verticale che si ghiaccia immediatamente garantendo l’acqua sino a primavera inoltrata.
E così via, in un susseguirsi di curiosità come il requiem di una stella, a millecinquecento anni luce dalla Terra, raccolto in 70 tracce sonore che diventano un’installazione audiovisiva. Oppure il viaggio della Seed Journey, vecchia barca a vela che nella sua rotta tra Oslo e Istambul ripercorre il viaggio di una partita di semi antichi chiedendo alle comunità locali che li avevano prodotti di custodirli riproducendoli e restituendone una parte per farli sopravvivere. O, ancora, l’incontro con l’Albero della vita e dell’abbondanza che Abal Rodriguez, della comunità indigena Nontuya dell’Amazzonia colombiana, ha disegnato sulla base della memoria collettiva e del sapere tramandato, di generazione in generazione. Per finire con la Capsula mundi, suggerimento per far sì che il nostro contributo all’inquinamento del Pianeta si concluda almeno con la nostra morte.
Ho scelto a caso, nell’impossibilità di segnalare, come meriterebbe, il tutto. Che trova altre svariate declinazioni nelle sezioni dedicate all’economia circolare, alla costruzione creativa delle nuove città, al design sociale per costruire ponti verso la condivisione della biosfera, alla chiamata di responsabilità individuale per cui ognuno di noi rappresenta un trim-tab, piccolo strumento che consente di correggere l’assetto del timone delle grandi navi.
Spero di avervi incuriositi. Se non bastasse, due chicche conclusive, per immersioni, del tutto particolari, nel mondo vegetale e animale.
È Stefano Mancuso, tra le massime autorità mondiali nel campo della neurobiologia vegetale ad aver curato l’esposizione divulgativa scientifica “La Nazione delle Piante”. L’invito è a guardare al mondo vegetale con occhi decisamente diversi, per scoprirne attitudini cui non abbiamo mai pensato; ne nascerà un nuovo atteggiamento che ce le farà considerare non solo per quello che hanno da offrirci, ma per quello che possono insegnarci. Le piante esistono sulla Terra da molto più tempo di noi, sono meglio adattate, e probabilmente ci sopravvivranno: nella loro evoluzione hanno trovato soluzioni tanto efficienti, quanto non predatorie nei confronti dell’ecosistema in cui noi, assieme a loro, viviamo. I più recenti studi sul mondo vegetale hanno dimostrato che le piante sono dotate di sensi, memorizzano e comunicano tra loro e quindi possono essere descritte come organismi intelligenti a tutti gli effetti. Un percorso di apprendimento immersivo, scandito da contenuti multimediali con una suggestiva introduzione, ci restituisce un’idea diversa della “Nazione delle piante” e della sua “Costituzione”.
Il consiglio è di dedicare il tempo che serve, comodamente sdraiati sui divanetti, a gustarvi l’emozione dell’opera creata dal musicista e bioacoustician Bernie Krause e dallo studio londinese United Visual Artists e realizzata grazie alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi. Un viaggio per il mondo, alla ricerca di suoni di origine non umana, che ha portato alla raccolta di più di 5.000 ore di registrazioni di habitat naturali poi tradotti in modalità visuale. I paesaggi sonori di Bernie Krause si sono così trasformati in una sequenza video che permette di ascoltare e visualizzare i suoni contemporaneamente, in una installazione tridimensionale. Un lavoro meditativo che informa su come la biodiversità si stia deteriorando e sulla necessità di preservare la bellezza del mondo animale che viene didascalicamente commentato attribuendo a ogni suono la sua origine animale specifica.
Alla fine della visita restano in mente alcune considerazioni che proprio la generazione di Greta dovrebbe approfondire per costruire strategie vincenti di futuro. A partire dalla constatazione della complessità in cui ogni cosa è fortemente correlata.
La storia del clima che cambia non finisce con il clima stesso; il cambiamento climatico porta con sé migrazioni di massa, conflitti, variazioni nei prezzi dei generi alimentari, instabilità politica e gentrificazione. Questo è il mondo che si prospetta e nel quale dovremo vivere. Regolato dalla complessità, una rete incredibilmente ampia di componenti interagenti, senza controllo centrale, il cui comportamento emergente è molto più elaborato della somma dei comportamenti delle sue singole parti. Negli ultimi dieci anni abbiamo sperimentato le conseguenze, sino ad allora impensabili, di un sistema finanziario globale interconnesso.
Così accade per altri settori, al punto da farci riconoscere la maggior parte, dei sistemi sul nostro pianeta ‒ città, mercati, corpi, ambienti ‒ sono complessi. E loro stessi interagiscono per formare il sistema complesso ancora più grande che è il nostro pianeta. La logica conseguenza è che ogni problema mondiale, dai rifugiati al terrorismo, alla sicurezza alimentare e alla scarsità d’acqua o di materie prime, non può essere affrontato nell’isolamento. Siamo a un punto di svolta della complessità, che riguarda ogni governo, azienda e persona. Stephen Hawking proclamò il ventunesimo secolo “il secolo della complessità” e, in effetti ci stiamo avviando verso un mondo “sistema di sistemi” che al momento non siamo in grado di affrontare stante la tendenza a un pericoloso allontanamento dal multilateralismo e verso un aumento quasi surreale del nazionalismo in un contesto di sfide sempre più globali e interconnesse.
«Il cambiamento climatico ‒ ha proclamato l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ‒ non ha passaporto e non conosce confini nazionali». La sfida esistenziale dell’umanità oggi è che i sistemi che compongono il pianeta stanno diventando più complessi, mentre i sistemi che organizzano e governano il pianeta stanno diventando più frammentati. Affrontare questa sfida richiederà altro: una riformulazione del mondo.