Congiuntura economica e situazione ambientale

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Vi sono segnali evidenti che l’economia dei Paesi europei (e non solo) si stia avviando verso una nuova fase recessiva: la ripresina del 2016-17 si è infatti esaurita.

Nel terzo trimestre di quest’anno l’economia tedesca ha registrato per la prima volta dal 2015 una riduzione del PIL dello 0,2% rispetto al trimestre precedente. Questa frenata dipende in buona parte dall’esaurimento delle vendite di nuove automobili: bisogna, infatti, tener conto che il settore auto costituisce da solo un quarto del comparto manifatturiero tedesco.

Ebbene sì: la nostra modernissima economia capitalistica globalizzata e tecnologicamente avanzata con le sue fabbriche 4.0 si sta di nuovo accasciando perché il maturo mercato dell’automobile, un mercato di sola sostituzione, almeno nelle economie cosiddette occidentali (ma forse non solo più in quelle), è di nuovo, almeno temporaneamente, saturo.

Infatti le immatricolazioni di nuove auto nell’Unione Europea a 28, oltre a Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein sono diminuite a ottobre del 7,4% rispetto allo stesso mese del 2017; in particolare le auto diesel che rappresentano poco più di un terzo delle vendite delle auto nuove hanno perso mediamente il 10% nel gruppo dei Paesi suindicati, il 16% nella sola Germania e il 17% in Italia. I nuovi standard globali di omologazione relativi alle emissioni di gas di scarico e ai consumi stanno determinando una caduta delle vendite di auto diesel, mentre le vendite di auto con alimentazioni alternative rappresentano oggi solo il 7,8% (di cui 2,1% elettriche) del totale.

In Italia il rallentamento brusco del mercato dell’auto è già avvenuto a settembre con oltre –25% (FCA –16,8%). La crisi del settore auto in Italia trascina ovviamente tutto il comparto della meccanica che perde tra il 4% e il 5% e vede ridursi significativamente il tasso di utilizzo della capacità produttiva, già basso negli ultimi anni.

La produzione industriale nel suo complesso in Italia non è ancora riuscita a ritornare ai valori precedenti la crisi del 2008: infatti, fatto 100 il livello del primo trimestre 2008, nel 2009 è scesa a 74,6 e lentamente è poi risalita, così che nella seconda metà del 2017 è arrivata a 82,4, per scendere di nuovo ora a 81,9

La situazione economica incomincia a peggiorare anche negli USA, nonostante la politica commerciale di Trump fondata sui dazi contro i concorrenti esteri e sugli incentivi fiscali per i produttori nazionali: a ottobre 2018 l’acquisto di beni durevoli (tra cui l’auto) sul mercato americano è sceso del 4,4%.

Tutta l’industria americana sembra affacciarsi a una nuova fase di crisi, come segnala la grave situazione debitoria di General Electric, l’azienda, cioè, che prima della rivoluzione digitale è sempre stata l’indicatore dello stato di salute dell’economia reale americana.

Anche la situazione finanziaria statunitense appare traballante: è di nuovo scoppiata una bolla dei titoli tecnologici che aveva portato Apple a valere da sola più di mille miliardi di dollari, cioè l’equivalente della somma del PIL di Austria, Polonia e Ungheria.

In poche settimane il valore di borsa delle cinque grandi sorelle digitali (Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google) è sceso di mille miliardi di dollari. Anche la quotazione del petrolio in poco più di un mese ha perso il 30%.

Inoltre la guerra commerciale tra USA e Cina sta indebolendo la crescita di quest’ultima: anche sul piano finanziario l’economia cinese appare in difficoltà, visto che dall’inizio dell’anno la borsa ha perso più di un quarto del suo valore.

Oltre all’auto, il secondo pilastro del modello capitalistico di crescita è dato dall’industria delle costruzioni; la situazione italiana, dove il livello di cementificazione del territorio ha raggiunto livelli altissimi, è molto significativa.

Se si considerano, ad esempio, alcune delle principali aziende italiane (che nel 2016 hanno complessivamente totalizzato circa 7,5 miliardi di ricavi) si ottiene un quadro desolante della loro situazione economico-finanziaria. A parte Salini-Impregilo tutte le altre sono, infatti, in grave difficoltà: Astaldi (che ha debiti per 3 miliardi) ha chiesto il concordato preventivo, come Grandi Lavori Fincosit (che esegue i lavori per la TAV Milano-Genova) e Mantovani (che lavora al Mose di Venezia); Unieco è in liquidazione coatta amministrativa; Condotte in amministrazione straordinaria; mentre CMC Ravenna (Lega COOP), Trevi (CDP) e Toti sono in condizioni di stress finanziario e richiedono ai loro soci di riferimento di provvedere a un aumento di capitale.

E che dire dei grandi eventi che spesso vengono salutati come una salvifica iniezione di vigore nel corpo maturo e anche un po’ macilento del “nostro” sistema socioeconomico?

La città di Calgary (Canada) ha rifiutato, con un referendum indetto tra i suoi cittadini, di candidarsi come sede per le Olimpiadi invernali del 2026: in precedenza avevano già rifiutato sedi qualificate come Sapporo (Giappone), Sion (Svizzera) e Graz (Austria).

Le motivazioni addotte dai canadesi sono state il costo elevato, la durata breve con un conseguente introito turistico limitato e il rischio di favorire la corruzione.

Stoccolma è ancora in lizza, ma il comune è contrario e il governo nazionale non si è ancora formato dopo le recenti elezioni che hanno reso difficile la costruzione di una maggioranza parlamentare.

Nel caso anche Stoccolma dovesse recedere resterebbe solo la candidatura di Milano-Cortina sostenuta dalle Regioni Lombardia e Veneto e dal CONI.

Tenendo conto di questi dati, che si possono leggere sui principali giornali italiani ed esteri, c’è da chiedersi quanto fossero informati della reale situazione economica i partecipanti alla riuscita manifestazione di Piazza Castello a Torino, che richiedevano attraverso i loro slogan più auto (NO ZTL), più grandi opere (SI TAV) e più eventi (SI OLIMPIADE 2026).

A breve distanza di tempo da quella mobilitazione, sempre a Torino, si è tenuto un interessante convegno “Science and the future 2” presso il Politecnico e il Campus Einaudi: si è trattato in realtà della seconda edizione (la prima fu nel 2013) di un incontro di carattere internazionale al quale hanno partecipato scienziati (tra gli altri è intervenuto come relatore il Rettore del Politecnico) sia italiani che esteri e accademici dell’area giuridica, economica e sociale.

È stata un’occasione importante per avere un quadro aggiornato della situazione ambientale e per verificare la compatibilità dell’attuale modello socioeconomico con il sistema della natura.

Come sappiamo nel dicembre 2015 con l’accordo di Parigi i principali Paesi hanno deciso di cercare di mantenere l’innalzamento della temperatura media dell’atmosfera ben al di sotto di 2°C o meglio fino a 1,5°C entro il 2030.

Secondo il report 2018 dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change)

«Oggi il riscaldamento prodotto dalle attività umane ha già raggiunto il livello di circa 1°C rispetto al periodo pre-industriale. Nel decennio 2006-2015 la temperatura è cresciuta di 0,87°C (±0,12°C) rispetto al periodo pre-industriale (1850-1900). Se questo andamento di crescita della temperatura dovesse continuare immutato nei prossimi anni, il riscaldamento globale prodotto dall’uomo raggiungerebbe 1,5°C intorno al 2040».

«Per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto all’era pre-industriale, il mondo dovrà affrontare una serie di trasformazioni complesse e connesse. Se alcune città, regioni, Stati, aziende e comunità stanno già portando avanti transizioni per diminuire le emissioni di gas serra, sono poche le realtà che sono attualmente in linea con l’obiettivo di 1,5°C. Rispettare questo limite richiederà un’accelerazione nella dimensione e nel ritmo del cambiamento, soprattutto nei prossimi decenni. Sono molti i fattori che influiscono sulla fattibilità delle diverse opzioni di adattamento e di mitigazione che possono contribuire a limitare il riscaldamento globale a 1,5°C e di adattarsi con successo alle relative conseguenze».

«Gli impatti dei cambiamenti climatici riguardano tutti i continenti e gli oceani. Tuttavia, non sono distribuiti sul pianeta in maniera uniforme: nelle varie regioni gli impatti dei cambiamenti climatici si manifestano in maniera diversa. Tra i molti impatti possibili, un riscaldamento medio globale di 1,5°C aumenta il rischio di ondate di calore e piogge intense».

Sono cronaca di questi ultimi mesi i grandi incendi in California, dove da anni persiste una forte siccità, e, all’opposto, l’alluvione a Petra in Giordania in piena zona semi desertica; e in ambito locale le mareggiate sulle coste italiane, le alluvioni in Sicilia e i forti venti che hanno distrutto le foreste del Friuli.

Questi fenomeni non devono stupire: a fine ottobre l’Agenzia europea per l’ambiente ha diffuso un rapporto sul tema dell’inquinamento atmosferico che, come sappiamo, è causa primaria dell’innalzamento della temperatura. L’Italia è il secondo Paese europeo, dopo la Germania, per decessi prematuri dovuti all’inquinamento da polveri sottili (più di 60 mila morti nel 2015); è invece al primo posto in Europa per le morti premature connesse all’inquinamento da biossido di azoto (20 500) e da ozono (3200).

Secondo l’Agenzia oltre 47 milioni di europei (8,9% del totale) sono esposti al rischio determinato dagli sforamenti di almeno due dei limiti delle polveri sottili, del biossido d’azoto o dell’ozono. All’interno di questo folto gruppo, però, 3,9 milioni di cittadini vivono in zone a “super rischio” dove gli sforamenti riguardano tutti e tre i fattori: di essi 3,7 milioni, cioè il 95%, abitano le aree urbane della Pianura Padana.

Ma anche dal punto di vista del terreno la Pianura Padana è messa male: nel convegno citato è emerso che la nostra pianura è la meno fertile in Europa a causa dell’agricoltura intensiva del mais, in particolare.

In sostanza, secondo gli scienziati che sono intervenuti a Torino, c’è un evidente e insanabile conflitto tra l’economia circolare della natura e l’economia della crescita continua: basta anche solo pensare, oltre all’enorme consumo energetico attraverso la combustione (che in natura non esiste se non per piccole eccezioni) al tema dei rifiuti e del loro necessario, ma difficile, riciclo.

A questo proposito è emerso durante il convegno un dato interessante: quando si parla di rifiuti generalmente ci si riferisce ai rifiuti urbani. Essi, però, sono solo una piccola parte del volume molto più grande di rifiuti prodotti dalle diverse attività economiche: la parte principale dei rifiuti è dovuta infatti all’attività edilizia.

Anche per questi aspetti viene da chiedersi quanto fossero informati su questi dati ambientali i partecipanti alla manifestazione di Piazza Castello a Torino.

I relatori del Convegno di Torino si sono soffermati anche sugli aspetti economici e sociali del modello attuale per dire innanzitutto che l’idea di una crescita economica continua e illimitata è priva di fondamenti scientifici: la curva dell’economia reale non è dunque quella esponenziale che sognano alcuni economisti, ma molto più realisticamente una curva logistica che all’inizio cresce rapidamente per poi rallentare e stabilizzarsi lungo un asintoto superiore.

Anche il tema delle disuguaglianze sociali che è oggi scoperto e trattato persino dai fautori della crescita illimitata perché temono che esso possa portare a una stagnazione economica (che in realtà è già in atto) e a un forte conflitto sociale e internazionale, è stato affrontato dai relatori.

È stato detto che in una logica economica di crescita continua e di competizione esasperata l’aumento delle disuguaglianze è inevitabile; infatti se la curva che meglio interpreta l’economia attuale   è quella logistica, allora esistono due curve logistiche: quella della minoranza dei più ricchi, che segue l’andamento descritto prima per l’economia in generale, e quella della maggioranza via via più povera che inizialmente sale quasi parallela a quella dei ricchi, ma che poi declina molto prima e continua a scendere stabilizzandosi lungo un asintoto inferiore molto basso.

Su questo aspetto almeno i partecipanti alla manifestazione di piazza Castello a Torino erano sicuramente informati e coscienti, visto che si sono dichiarati in continuità con la marcia del 40 mila del 1980 contro gli operai di Mirafiori. La loro speranza è sicuramente quella di restare appesi alla curva logistica dei ricchi e di non precipitare su quella dei poveri.

Se la situazione economica, ambientale e sociale è questa, non resta dunque che sperare nell’innovazione tecnologica perché ci salvi dalla distruzione ambientale e dal degrado sociale; ma anche qui le osservazioni che ci arrivano dal convegno “Science and the future 2” non sembrano confortare questa speranza.

Qual è la curva che descrive meglio i rendimenti non solo economici delle innovazioni tecnologiche?

Non è in questo caso la logistica – che non andrebbe neanche male – ma quella detta di Seneca, che, a fronte della complessità crescente della società, vede crescere inizialmente i benefici sociali per poi rallentare e raggiungere un massimo, dopo il quale la curva inizia rapidamente a scendere.

Un esempio che descrive bene questo andamento è la scoperta della penicillina e degli antibiotici: inizialmente ha portato a un rapido miglioramento delle condizioni sanitarie; poi l’effetto si è stabilizzato e ora incomincia a decrescere.

Questa interpretazione dei rendimenti decrescenti delle innovazioni tecnologiche è stata suffragata con l’analisi degli effetti socioeconomici delle tre grandi rivoluzioni industriali: del vapore, dell’elettricità e del digitale. In tutti e tre i casi i dati dei principali Paesi mostrano l’andamento suindicato.

Provando a tirare le fila di quanto fin qui detto, risulta evidente che occorra mettere mano alla costruzione di una proposta di un modello socioeconomico diverso da quello attuale, superando la parzialità dei singoli movimenti che si occupano della salvaguardia dell’ambiente, se non addirittura di un suo specifico elemento (l’aria, l’acqua, i rifiuti, ecc.) oppure dell’opposizione a grandi opere o grandi eventi finalizzati solo al doping di un’economia stagnante oppure ancora alla difesa della dignità sociale ed economica di chi vive o vorrebbe vivere del proprio lavoro.

Certo un intento di questo genere non può essere esente da dubbi, incertezze e anche vere contraddizioni, ma una certezza su tutte ci rimane: nessuno dei partecipanti alla manifestazione di piazza Castello a Torino vorrà e potrà contribuire a un progetto del genere.

24 novembre 2018

Gli autori

Riccardo Barbero

Riccardo Barbero ha militato in diverse organizzazioni politiche e sindacali della sinistra. Attualmente pensionato anche dal punto di vista politico. Collabora con i siti workingclass.it e volerelaluna.it

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