Le lezioni del fuoco

Volerelaluna.it

24/10/2018 di:


Bosco di Pampalù - ottobre 2017 - foto di Luca Giunti

La corteccia si squama lasciando esposto il libro interno umido e rosato, talvolta arancione brunito. È l’aspetto che più colpisce visitando le aree percorse dagli incendi esattamente un anno fa in Val Susa. La pelle degli alberi reagisce come quella umana: dopo le ustioni rigetta le croste necrotizzate e cerca di ricongiungere i pochi lembi delle ferite ancora vitali. Lo sforzo è commovente ma quasi sempre inutile. La maggior parte delle piante colpite è morta o morirà presto.

Dalla mattina di domenica 22 ottobre 2017 alla sera di lunedì 30 oltre 4000 ettari di boschi, boschetti, prati e pascoli della media e bassa Val Susa sono stati colpiti da un incendio inarrestabile. Il versante sinistro, l’indritto, è bruciato dai 400 metri di quota ‒ appena dietro le ultime case di Bussoleno e Chianocco, appena dietro le borgate di Marzano e San Giuseppe a Mompantero ‒ fino a 2400 metri del Monte Palon e sotto il Rifugio Ca’ d’Asti, tradizionale tappa per la salita alla vetta del Rocciamelone. Altri focolai sono scoppiati a Caprie, dove con fatica sono state difese le case di Camparbiardo, Celle, Peroldrado mentre alcune sono crollate vicino a Borgata Sala. Centinaia di persone si sono prodigate senza sosta: vigili del fuoco, volontari AIB e della Croce Rossa, carabinieri forestali e guardiaparco, cittadini e amministratori pubblici, con in testa sindaci fragili ma determinati, onnipresenti, infaticabili. Nello stesso periodo sono bruciate altre aree del Piemonte in Val Sangone (Cantalupa, Cumiana, Monte Freidour), nelle Valli di Lanzo (Noasca), in Val Chisone (Usseaux) e più lontano, tanto da far ipotizzare una regia criminale o un moltiplicarsi di emulazioni. Infatti, secondo gli inquirenti, si tratta nella maggior parte dei casi di incendi dolosi. Reati gravi, puniti dal codice penale fino a 15 anni di galera per i pesanti danni causati a tutte le componenti ambientali. Purtroppo, come spesso accade, non è semplice individuare i colpevoli. L’azione è rapida, compiuta da soggetti esperti del territorio e dei suoi recessi, che si allontanano senza fretta prima che scoppi l’innesco – solitamente rudimentale, non certo un sofisticato timer da terroristi – da loro abbandonato nei punti più sensibili.

Perché un incendio divampa? Per cause lontane, per cause predisponenti, per cause immediate. Le ultime sono più facili da capire: qualcuno costruisce un detonatore (dolo) oppure commette una leggerezza (colpa). Tipico è l’abbruciamento di residui vegetali nel prato sfalciato o nel campo coltivato dal quale scappano incontrollate scintille e tizzoni che propagano il fuoco, magari favorito dal vento e dalla siccità. Infatti di norma il Piemonte, al contrario del Meridione, che ospita un diverso tipo di vegetazione, brucia d’inverno, soprattutto nella seconda parte della stagione, e per questo ogni anno la Regione emette una severa ordinanza di “grave pericolosità” che vieta non solo di usare fiamme o bracieri, ma persino di fumare nei boschi o vicino ad essi. Talvolta vengono citati anche altri fattori – il mozzicone gettato nelle stoppie e la marmitta bollente a contatto con l’erba secca a bordo strada – che invece incidono pochissimo (meno del 2 per cento delle cause accertate).

Risalendo la catena degli eventi, troviamo le cause predisponenti. Nel nostro caso, siccità e vento. Il 22 ottobre 2017 non pioveva da 33 giorni consecutivi (il deficit cumulato da inizio anno era di meno 40 per cento). La pioggia è tornata solo il 4 novembre. Il vento era stato ben annunciato dalle previsioni meteo e i tre episodi più intensi della “settimana di fuoco” si sono verificati, non a caso, il 22, il 27 e il 29 ottobre proprio in corrispondenza delle raffiche più violente (da 70 fino a 90 km/h). Il terreno, gli alberi, la cotica erbosa, gli arbusti, perfino i rifiuti che purtroppo lordano ovunque i nostri boschi, erano secchi, disidratati, riarsi. Un combustibile perfetto e abbondante.

Perché qui interviene la terza causa, la più distante nel tempo. Dal Dopoguerra la diuturna attività dell’uomo nelle campagne e nelle montagne italiane si è rarefatta sempre più. Dove fino a pochi decenni fa si trovavano prati curati, terreni puliti fino alla maniacalità, muretti a secco a trattenere la terra sempre scivolante a valle, ora ci sono piante di invasione a rapido accrescimento, piccoli e grandi smottamenti, e soprattutto 30-50 cm di lettiera abbandonata, con foglie, rami e rametti, erba secca e humus che si sono accumulati in anni di incuria. Una Santabarbara quiescente pronta ad esplodere alla prima occasione utile, cioè il 22 ottobre 2017 quando – appunto – la siccità, il vento e la mano umana si sono sciaguratamente incontrate. Può sembrare cinico, ma il fuoco ha fatto in una settimana la pulizia che abbiamo smesso di fare da trent’anni.


Chiamberlando, ottobre 2017, foto di Luca Giunti

Ecco una prima lezione: bisogna tenere pulito il territorio.

L’emergenza si è conclusa un lunedì pomeriggio, almeno in Val Susa, mentre altri focolai perduravano nelle valli Chisone e Lanzo. Ma il lavoro di controllo e bonifica è proseguito per molte altre settimane, come sempre in questi casi. Ceppi ancora bollenti devono essere bagnati o asportati, perché potrebbero formare nuovi inneschi. Fumarole attive per molti giorni devono essere sorvegliate e annaffiate frequentemente, per impedire che si propaghino. Alberi caduti o pericolanti vicino a strade o abitazioni devono essere provvisoriamente messi in sicurezza in attesa di interventi più strutturali e definitivi. Inoltre devono essere censiti i danni, sia privati sia pubblici. Alcune seconde case sono state distrutte: il fuoco ha fatto crollare il tetto di legno o esplodere la bombola del gas, e la devastazione sgomenta come dopo una guerra o un terremoto. Gli specialisti forestali devono perimetrare con cura le aree colpite, perché la legge nazionale impone severi vincoli per evitare possibili vantaggi agli incendiari e agli speculatori: per dieci anni divieto di cambio di destinazione d’uso, di caccia, di pascolo.

Come si è detto, lo sforzo per spegnere gli incendi ha coinvolto centinaia di persone. In questi casi, le squadre degli AIB e dei Vigili del Fuoco vengono richiamate anche da lontano. Dopo un veloce summit con i responsabili locali, che hanno la visione complessiva dell’emergenza, si distribuiscono nelle varie zone di intervento. A questo punto, sorge un problema di toponomastica. Nomi evocativi, da film fantasy, come Perriere, Ercossi, Trucetti, Pietrabianca o Pietrabruna, Prà Barbé, Lambert, Calcinera, per chi viene da fuori non sono altro che un punto sulla mappa; in più il dialetto li storpia in contrazioni irriconoscibili. Preziosa è allora la conoscenza spicciola del territorio offerta da volontari, cittadini locali, anziani del posto, che sappiano guidare le varie squadre lungo piste e accessi altrimenti difficili da individuare, risparmiando tempo e migliorando la tempestività delle azioni, con un servizio invisibile, sconosciuto e importantissimo.

Ecco la seconda lezione: bisogna conoscere il territorio.

Come in ogni emergenza nazionale, colpisce la spontanea solidarietà dimostrata dalle persone più impensate. Un assessore comunale racconta: «Essendo sede di un Centro Operativo dovevamo pensare alla logistica e al sostentamento di un numero variabile di operatori (2-300): AIB, vigili del fuoco, carabinieri in versione forestali e in versione ordine pubblico, polizia di stato, alpini, volontari vari. Non c’è stato problema, nel senso che commercianti, fornitori, imprese della zona hanno fatto affluire una quantità imponente di derrate e generi di conforto, senza chiedere niente in cambio, al punto che abbiamo dovuto, ringraziando, pregarli di non mandare altro perché già così molto l’avremmo poi dato alla Caritas. Ci sono stati impiegati degli uffici tecnici e vigili di comuni non coinvolti nell’incendio che sono venuti semplicemente, fuori dei loro orari di lavoro, a fare servizio da noi (e nessuno ha chiesto il riconoscimento di straordinari presso le amministrazioni di appartenenza)».

Che danni provoca un grande incendio agli ecosistemi? Il più immediato, il più facile da comprendere, è la morte degli alberi. A seconda delle specie e dell’intensità locale delle fiamme, alcuni esemplari sono riusciti a diffondere i semi a primavera, con uno sforzo agonico commovente. Altri, che all’apparenza sembrano meno devastati, sono in realtà già perduti perché il calore ha insistito sulle radici a noi invisibili troncando ogni collegamento tra il suolo e le foglie. Talvolta il fuoco, circoscritto dai volontari o casualmente indirizzato dai venti, si è sviluppato a ondate, lasciandosi alle spalle nuclei poco bruciati o addirittura intatti, dai quali è già iniziata una nuova colonizzazione. Alcune specie di erbe e arbusti sono addirittura favorite dagli spazi liberati, come succede anche dopo valanghe, frane e alluvioni.

Poi, sono morti moltissimi animali. Non tanto i mammiferi superiori, i primi che ci vengono in mente. Caprioli, cervi, cinghiali, volpi, lepri non hanno aspettato le fiamme addosso per scappare. Il fumo, il calore, il chiasso, li hanno avvisati in tempo. Ancora meno gli uccelli che, spariti subito, già a novembre erano tornati a spigolare al suolo o sulle pigne aperte dal calore (cince, fringuelli, sordoni, zigoli, lucherini). Certo, come la selezione naturale spietatamente insegna, gli sfigati o gli handicappati ‒ anziani, malati, defedati, zoppi ‒ non ce l’hanno fatta. Sono infatti stati ritrovati alcuni cadaveri abbrustoliti o soffocati che hanno suscitato giusta compassione. Ma la fauna più colpita è stata quella alla quale pensiamo meno: rettili, anfibi, piccoli mammiferi (arvicole, topiragno, ghiri, scoiattoli) e soprattutto invertebrati e insetti, sia quelli esterni come coleotteri e farfalle, sia quelli, preziosismi, interni al suolo: formiche, collemboli, lombrichi, miriapodi, crostacei. In questo panorama apocalittico, l’unico animale che sembra non aver patito è la processionaria, il più famoso parassita dei pini. Nessuno se lo aspettava. Durante quella terribile settimana molti hanno pensato che – almeno – un flagello avrebbe carbonizzato l’altro. Così non è stato. Le qualità dei suoi peli urticanti dovrebbero essere studiate chimicamente come innovativa sostanza ignifuga…

Il terreno, inoltre, viene mineralizzato dal calore, che trasforma in cenere gli strati superficiali e li rende preda del vento e della gravità. L’erosione è una grave conseguenza degli incendi. Si manifesta già durante l’emergenza, con smottamenti, piccole frane, cadute di pietre non più trattenute dalla terra e dalle piante (che spavento gli schianti di cui non si capisce l’origine dietro il fumo!). Prosegue per anni e influenza ogni decisione gestionale successiva: le radici degli alberi morti mantengono una importante funzione di imbragamento; asportarle per fare spazio a nuovi impianti potrebbe compromettere equilibri precari e innescare cedimenti più gravi.


Paradiso - ottobre 2017 - foto di Luca Giunti

Ecco la terza lezione: il territorio è composto da un’infinità di reti ecologiche.

Certamente i danni da riparare primariamente sono quelli inflitti alle strutture umane, private e pubbliche. Strade e piste, muretti e cartelli, acquedotti e bealere, impianti elettrici e di comunicazione, da ripristinare o da mettere in sicurezza, hanno impegnato e impegneranno risorse economiche, progettuali e manovali per molti anni a venire. La disgrazia potrebbe addirittura innescare processi virtuosi, se si progetteranno gli interventi in maniera partecipativa, ascoltando tante competenze diverse e non solo quelle specialistiche [corollario alla terza lezione: studiare la “Scienza post-normale”] e programmando azioni leggere diluite negli anni anziché grosse operazioni concentrate sull’immediato. In questo senso, le proposte di rapidi rimboschimenti, offerte subito da molti soggetti volenterosi, sono state scartate con estremo rigore, nonostante appaia antipatico davanti a slanci di empatia così entusiasti. Gli spazi dove intervenire, come detto, sono scarsi e fragili. Occorrono mani esperte e sapienze delicate, per operare con mezzi leggeri e distribuiti su tante piccole aree e non su una o due grandi. Nuove essenze sono da scegliere con grande cura, sia per l’adattabilità ai luoghi sia per prevenire l’arrivo di specie invasive (vegetali e parassiti esotici sono fieramente combattuti dall’Italia e dalla UE per i gravissimi danni che provocano continuamente). Gli alberi di Natale di cui sbarazzarsi dopo l’Epifania non andavano proprio bene…

La nostra mente di “homo faber” fa fatica ad accettare che – quasi sempre – la Natura recupera da sola, con poco o nullo aiuto da parte nostra. Non ama il vuoto, la Natura, e lo riempie in fretta. Non vedremo mai più la pineta di Pampalù – ad esempio – uguale a come era a metà ottobre. Ci vorranno cinquant’anni per ritornare a una situazione simile, e sarà comunque diversa perché diverse saranno le condizioni del clima, dell’insolazione, della composizione del suolo, dell’utilizzo umano. Ma, certo, gli alberi torneranno a prosperare e tutto l’ecosistema con loro. Già oggi molti steli verdi sono spuntati dal contorno annerito, tanti fiori si sono fatti impollinare, centinaia di semi invisibili nella terra hanno cominciato il lungo percorso che li porterà, tra mezzo secolo, a svettare nuovamente con la chioma alta verso il cielo.

Ecco la quarta lezione: i tempi della Natura non sono i nostri.

L’emergenza in realtà non è stata straordinaria. Solo tra novembre 2015 e febbraio 2016 il Piemonte ha visto 172 incendi, con oltre 3000 ettari di superficie bruciati di cui oltre 1200 di boschi, sempre a causa di un inverno ritardato e delle mani umane. Cambiamenti climatici con eventi estremi e incuria del territorio hanno trasformato queste eccezionalità in una nuova normalità, alla quale siamo costretti ad abituarci.

Ultima lezione del fuoco.