Sul futuro del progetto della Nuova linea ferroviaria Torino-Lione sembra essersi aperto un dibattito. Un dibattito, peraltro, viziato da dati inveritieri e da suggestioni.
Per esempio, per alcuni giorni, le maggiori testate giornalistiche e televisive hanno riportato con grandissimo rilievo (cioè attraverso evidentissimi titoli, più ancora che col contenuto degli articoli) che un ritiro italiano dalla realizzazione del tunnel di base avrebbe comportato l’esborso di due miliardi di penali (un esponente politico piemontese è arrivato a dichiarare che sarebbero stati 2,4 miliardi). Questa notizia era, ed è, falsa. Una volta sgonfiatasi (c’è stata anche una precisazione da parte dell’Unione Europea e il commissario e presidente dell’osservatorio in una intervista ha dovuto dichiarare di non aver mai parlato di penali) nessuna delle testate che avevano divulgato la bufala ha pubblicato smentite, ma la cosa più significativa è che nessuno dei giornalisti implicati si era preoccupato di verificare la storia delle penali. Nel complesso si è intenzionalmente lasciata nelle orecchie e negli occhi dei lettori la convinzione che se ci si ritira si dovranno pagare delle multe: questa è deliberata manipolazione dell’informazione per fini particolari. In compenso sui mezzi di comunicazione in un sol giorno sono apparse dichiarazioni di parlamentari in cui si affermava che uno stop alle grandi opere nazionali avrebbe in 50 anni (!) prodotto 40 miliardi di danni, che per bocca di altro esponente della stessa forza politica, sono diventati 50 miliardi e prima della fine della giornata sono diventati 60 miliardi. Chi offre di più?
Passo dalle fake news alla realtà. Cominciando da benefici (supposti) e costi (molto concreti).
Lungo la linea ferroviaria esistente il massimo flusso di merci si è avuto nel 1997. Da allora fino al 2016 il flusso si è ridotto del 71%; nello stesso periodo il traffico ferroviario attraverso la frontiera italo-svizzera è cresciuto del 63% e quello attraverso la frontiera italo-austriaca è cresciuto del 46%. Tutti questi dati, come i seguenti, sono reperibili presso l’Ufficio Federale dei Trasporti Svizzero. È stato detto, senza argomentazione, che la causa degli andamenti opposti in direzione est-ovest e nord-sud era dovuta all’inadeguatezza della ferrovia esistente nelle valli Susa e Maurienne. Concentriamo dunque l’attenzione sul decennio 1997-2007. In tale periodo la contrazione del traffico Italia-Francia è stato del 43,6%, mentre quello Italia-Svizzera cresceva del 43,7%. Tra Italia e Francia era in funzione il tunnel ferroviario del Fréjus lungo 13,6 km ad una altitudine di 1335 m. Fino al 2007, il traffico attraverso la Svizzera centrale (in crescita) passava per il tunnel del Lötschberg, lungo 14,6 km ad una altitudine di 1400 m, con pendenze e raggi di curvatura analoghi a quelli del Fréjus. Per completezza ricordo che fino al 2016 è stato in funzione anche il tunnel storico del S. Gottardo, lungo 15 km ad una altitudine di 1151 m. Si direbbe che i diversi andamenti dipendessero da fattori di mercato diversi dalle caratteristiche tecniche dei tunnel. Occorre poi aggiungere che tutto il traffico attraverso la frontiera italo-francese (inclusa quindi la strada) ha subito tra l’anno del suo massimo (2001) e il 2016 una riduzione del 17,7% mentre l’analogo traffico complessivo tra Italia e Svizzera nello stesso periodo è cresciuto del 30%. Insomma anche il traffico su strada in direzione est-ovest ha manifestato una tendenza alla riduzione, che non corrisponde all’andamento nord-sud.
Questo stato di cose ha la testardaggine tetragona dei fatti. Essendo tutto ciò oggettivo, chi sosteneva comunque e a priori l’opera si è rivolto al futuro e nella Analisi Costi Benefici (l’unica resa pubblica nel 2012 sotto forma di quaderno n. 8 dell’Osservatorio) ha sostenuto che il traffico est-ovest (simulato a partire dal 2004) avrebbe drasticamente ribaltato gli andamenti e avrebbe incontrato una strabiliante crescita (triplicazione entro il 2035 e moltiplicazione per 15-20 entro il 2050). Quelle “previsioni” erano inattendibili e, quel che più conta, non si sono fin qui verificate, anzi (come riconosce lo stesso Osservatorio nel 2017: vedere quaderno n. 10 pubblicato nel 2018). Quei documenti si pensa che il normale cittadino non vada mai a leggerli e al committente interessa solo che la conclusione dia ragione alla decisione già presa, ma quando c’è qualche ficcanaso, che sa leggere i numeri e va a guardare le carte, si vede che quei mirabolanti risultati sono ottenuti con artifici poco dignitosi dal punto di vista professionale… e il mondo reale si incarica di smentirli.
Va detto che in questa vicenda la propaganda urlata è una costante. Nei primi anni Novanta si parlava (titoli di giornale, articoli e interviste a coloro che contano) di passeggeri e si diceva che il loro numero tra Torino e Lione (per la verità tra Milano e Parigi) erano circa 2000 al giorno, ma in una decina di anni (sempre tra Torino e Lione) sarebbero diventati 20.000! A quasi trent’anni di distanza i passeggeri sulla linea, servita dal TGV, sono più o meno sempre gli stessi: ci sono tre treni al giorno, uno solo dei quali ferma a Lione, per altro ad una ventina di km dal centro (stazione di Saint Exupéry) per cui per andare davvero a Lione conviene scendere o a Chambéry o a Aix Les Bains e poi prendere un altro treno che arriva in centro città (Lyon Part Dieu). È appena il caso di ricordare che sulla linea giapponese Tokyo-Osaka i passeggeri/giorno sono dell’ordine di 400.000 e sulle linee cinesi i flussi sono dell’ordine di 200.000 al giorno in crescita. Il ramo più trafficato dell’alta velocità francese si attesta sui 40.000 passeggeri/giorno.
Tramontati i passeggeri, sono emerse le merci e gli altoparlanti hanno preso a trasmettere che la linea esistente era prossima alla saturazione, che sarebbe stata raggiunta di nuovo entro una decina d’anni. Non era vero e fu l’Osservatorio (di cui ho fatto parte finché non venne richiesta una dichiarazione a priori di non contrarietà all’opera) ad attestarlo (quaderni 1 e 2). Chi aveva sbandierato l’imminente saturazione smise di parlarne, ma nessuno si peritò di smentire le precedenti false notizie.
Scomparsa la saturazione, emerse l’inadeguatezza della linea storica, per cui rimando a qualche riga più su.
L’ultima carta giocata è stata quella dell’ambientalismo globale: venute meno le altre ragioni la linea deve servire a trasferire merci dalla strada alla rotaia. Gli svizzeri in questo sono maestri. Ciò che gli altoparlanti omettono di dire è che la Svizzera ottiene il risultato tassando (in proporzione al carico e alla distanza, tenendo conto del tipo di autoveicolo) l’attraversamento del Paese su strada; in tal modo la ferrovia diviene più conveniente. Né Francia né Italia hanno mai provato a fare una mossa del genere (ci sono di mezzo anche dei vincoli europei): se lo facessero, prima e a prescindere dalle infrastrutture, potrebbero ottenere un effetto immediato di trasferimento, visto che la linea esistente è in grado tranquillamente di portare 7 volte il traffico che ospita oggi.
L’altra motivazione gridata e insistita è quella dell’occupazione che verrebbe compromessa arrestando quest’opera. Anche in questo caso è facile osservare che le “grandi opere” come questa sono tutte ad alta intensità di capitale e relativamente bassa intensità di mano d’opera: relativamente pochi posti di lavoro per miliardo investito e per un tempo limitato. Interventi diffusi per riqualificazione territoriale (danni ingentissimi ogni anno), efficienza energetica (voce pesantissima sul bilancio dello stato, delle imprese e dei cittadini), sistemi di trasporto di massa hanno viceversa un’alta intensità di manodopera a fronte di una relativamente bassa intensità di capitale: si creano più posti di lavoro per miliardo investito e per durate indeterminate.
Non mi dilungo su un’altra serie infinita di dettagli, ma mi permetto una citazione evangelica, (Luca 14, 28-30): «Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento?». Ebbene nel caso di molte grandi opere, non solo in Italia, ma anche in altri Paesi, la prassi corrente è proprio quella di non fare i conti prima, semmai farli dopo per giustificare a posteriori ciò che si è già deciso per “altri motivi”. A dirlo non sono io ma la Corte dei Conti Europea (European Court of Auditors: rapporto n. 19 del 2018, punto V, pag. 8).
Dopo aver abbondantemente fatto riferimento alla realtà, aggiungo qualche commento. Questa ininterrotta, asimmetrica, esasperata levata di scudi su un’opera che produrrebbe debiti e passività ha una natura profondamente ideologica, anzi si potrebbe dire “religiosa” di una idolatria dogmatica che incorpora un modello di economia fondato su assiomi o meglio dogmi, il primo del quale è che gli esseri umani sono ineludibilmente e necessariamente egoisti e che di conseguenza, con qualche limitazione, il modo migliore per affermare l’interesse generale è dare campo libero all’egoismo. Questo sistema economico è entrato in conflitto coi limiti fisici del pianeta (che sono perfettamente insensibili ai titoli dei giornali, ai comunicati di Confindustria, ai commenti degli intellettuali e alle dichiarazioni dei politici) ed essendo basato sulla competizione quale vera molla del “progresso”, mentre collaborazione e solidarietà vengono relegati all’ambito del buonismo e delle pie intenzioni, si fonda sulle differenze sociali e le fa invariabilmente crescere. A dirlo non sono io ma le statistiche da cui si evince che il fenomeno tende ad essere più accentuato nei Paesi più potenti come gli Stati Uniti. Quanto più questo stato di cose diviene evidente, tanto più ne diventa isterica la difesa, mobilitando soprattutto chi più si identifica con questa struttura sociale, e puntando sulla disinformazione e sull’ignoranza. Le grandi opere, a prescindere dalla loro utilità o meno, concentrano grandi quantità di denaro, invariabilmente pubblico, in poche mani e si collocano su questo sfondo.