Chi mi conosce sa che mi occupo di ambiente da una vita, ma anche, ultimamente, di povertà ed emarginazione. In particolare ho scritto con altri amici Verde Clandestino, sulla flora spontanea cittadina, detta anche “flora urbica”, e in solitaria Poveri. Voci dell’indigenza. L’esempio di Torino.
Qual è il collegamento fra il verde spontaneo e i poveri? Ci tengo ad affrontare questa problematica, sia perché mi è stato chiesto più volte da persone che non comprendevano, sia perché l’approfondimento mi consente di parlare di ambedue i temi.
Innanzitutto, Verde clandestino. Perché clandestino? Semplicemente perché arriva e si diffonde senza che l’uomo intervenga. Facile distinguerlo dal verde curato dei giardini, il verde clandestino. Sul verde clandestino esistono enne pubblicazioni, ma che si limitano semplicemente alla catalogazione delle piante e alla scoperta delle loro proprietà, culinarie quando non medicinali. Ma c’è di più. Molto di più. Soprattutto c’è – trasformandosi da passanti in osservatori – la coscienza della potenza della natura. Se una città fosse abbandonata per alcuni decenni dagli umani, dopo diverrebbe quasi irriconoscibile. La natura si sarà riappropriata dei marciapiedi, le piante avranno crepato e sollevato l’asfalto, gli alberi avranno colonizzato i tetti. Uno spettacolo distopico, direbbe qualcuno, utopico a detta del sottoscritto. Del resto, la DMZ, la fascia demilitarizzata fra le due Coree, è uno dei luoghi con più alta biodiversità al mondo. Ed a Prypiat – a soli trent’anni da Chernobil – i boschi si stanno riprendendo gli edifici, e sono tornati i bisonti europei e la lince. Gunkanjima – isola nel distretto di Nagasaki – era il luogo più densamente popolato della Terra, oggi, a distanza di quarantasei anni dall’abbandono delle miniere di carbone, essa è oramai irriconoscibile. A conforto di quanto afferma Alan Weisman nel suo pregevole Il mondo senza di noi.
Tutto questo in piccolo noi riusciamo a osservarlo, con un minimo di attenzione, in quelle che stupidamente e spregiativamente chiamiamo “erbacce”.
I poveri. Torino è una città ad alto tasso di povertà. La Caritas diocesana li stimava nel 2016 in circa centomila. Con grande incremento di italiani, anche perché si nota un fenomeno di immigrazione al contrario da parte di talune etnie. Centomila? Può essere se consideriamo che al nord è considerato povero dall’Istat chi possiede un reddito pari a 826,73 euro (la soglia della povertà sta diminuendo anno dopo anno, mentre aumentano i poveri in povertà assoluta). E per fortuna che, oltre che povera, è anche, al contempo, la città più accogliente d’Italia, e non già grazie al pubblico, ma grazie ai privati. Se non ci fossero le strutture private laiche, ma soprattutto religiose, i poveri sarebbero ben più visibili di quello che sono.
Ed ecco il primo aggancio fra poveri e verde clandestino. La visibilità. Quando ci chiudiamo il portone alle spalle non ci accorgiamo della parietaria, del tarassaco, della piantaggine. Ma neppure dei poveri. Eppure ne siamo circondati. Non sono solo i neri che chiedono l’elemosina fuori dal supermercato, o dalla chiesa: quelli sono una minoranza. Sono quelli che vediamo rovistare nei cassonetti, sono i ragazzi che sfrecciano in bicicletta per Foodora o Just eat, o quelli che ci rispondono dai call center. Alleniamo la nostra vista e il nostro orecchio alla diversità!
Ma a Torino in particolare la povertà è aumentata perché essa era la città d’Italia più tradizionalmente industriale, grazie soprattutto alla FIAT e a suo indotto. Una realtà che non esiste più.
Ed ecco l’altro collegamento: le aree già industriali sono state colonizzate negli anni dal verde clandestino, spesso sotto forma di boschi in città. Peccato averli persi. Per cosa poi? Per nuovi condomini (ma a Torino non ci sono già fra 35.000 e 50.000 alloggi sfitti?) o non luoghi votati al dio consumo. Sarebbe stato più saggio conservare la memoria di quello che c’era (gli uomini e il loro lavoro) e di quello che è subentrato, anche se quello che è subentrato c’era già prima degli uomini e del loro lavoro. Semplicemente la natura si riappropria. Così come sarebbe più educativo e formativo accompagnare scolaresche di bambini e ragazzi a riconoscere la ricchezza in primavera di una aiuola. Un tripudio della vita e della diversità.