La pubblicazione, nel 1972, del libro “I limiti dello sviluppo”, scritto per conto del Club di Roma, ebbe, si può dire, l’effetto di una bomba in un mondo che già stava prestando crescente attenzione all’“ecologia”, al comportamento aggressivo degli esseri umani nei confronti della natura e dell’ambiente. Il libro derivava da uno studio di Jay Forrester del 1970 sul comportamento dei sistemi sociali, che suggeriva la necessità di passare da una situazione di crescita della popolazione e della produzione industriale ad una di equilibrio. Di questo studio Aurelio Peccei, presidente del Club di Roma, chiese una versione “popolare” che fu redatta da alcuni collaboratori di Forrester e apparve, in molte lingue, nella primavera del 1972, in coincidenza con la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano di Stoccolma. Il titolo originale del libro era “The Limits to Growth”, i limiti alla crescita, ma la traduzione italiana fu pubblicata col titolo equivoco: “I limiti dello sviluppo”.
Il libro contiene delle previsioni economiche e sociali estese ad una qualche data indefinita, nel XXI secolo, sulla base delle possibili interazioni fra i vari fattori: popolazione, risorse naturali, produzione agricola, produzione industriale, inquinamento, presentate sotto forma di “curve” ottenute con uno speciale programma di calcolo. Il rapporto, ovviamente, non diceva quello che succederà, ma quello che potrebbe succedere se si verificasse una concatenazione di eventi, riferiti all’intera popolazione terrestre:
se aumenta la popolazione aumenta la richiesta di cibo e di beni materiali, di merci;
se aumenta la richiesta di cibo deve aumentare la produzione agricola;
se aumenta la produzione agricola deve aumentare l’uso di concimi e pesticidi e aumenta l’impoverimento e l’erosione dei suoli coltivabili;
se aumenta l’impoverimento della fertilità dei suoli diminuisce la produzione agricola e quindi la disponibilità di cibo e il numero di persone sottoalimentate e che muoiono per fame e per malattie;
se aumenta la produzione industriale di beni materiali e di energia aumentano l’inquinamento e la sottrazione di minerali, di acqua e di combustibili dalle riserve naturali;
se aumenta la contaminazione ambientale peggiora la salute umana;
se aumenta l’impoverimento delle riserve di risorse naturali aumentano le guerre e i conflitti per la conquista delle risorse scarse; eccetera.
Per farla breve, il libro sosteneva che se fossero continuate ad aumentare la popolazione terrestre e la produzione agricola e industriale, ben presto l’umanità sarebbe andata incontro a scarsità di materie prime e conflitti per conquistare le restanti, a perdita di fertilità del suolo, a mancanza di acqua dolce, a inquinamenti tali da generare malattie, epidemie, disastri climatici, che avrebbero fatto diminuire la stessa popolazione umana. Se si vogliono evitare eventi traumatici — concludeva il libro — la soluzione va cercata in una diminuzione del tasso di crescita della popolazione, con conseguente rallentamento della produzione agricola e industriale e del degrado ambientale. La soluzione va insomma cercata nella decisione di porre dei “limiti alla crescita” della popolazione e delle merci e nel raggiungimento di una situazione stazionaria.
Il libro sui ”limiti alla crescita” fu al centro di un vivace dibattito per alcuni anni. Fu criticato dal mondo imprenditoriale che vedevano nella ricetta del Club di Roma una diminuzione degli affari: dagli economisti che sostenevano che l’economia sa affrontare bene i problemi di scarsità anche grazie ai progressi tecnologici. Fu criticato dai paesi sottosviluppati, che ne intendevano il messaggio come una proposta di una nuova forma di imperialismo; dai paesi comunisti, che consideravano i guasti dello “sviluppo” dovuti al modo capitalistico di usare le risorse naturali; dal mondo cattolico, per la proposta di limitare la popolazione. Una interessante analisi dell’accoglienza del libro è stata fatta dallo storico Luigi Piccioni in un lungo saggio apparso nella rivista telematica “Altronovecento”: http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/allegati/4880_2012.6.26_Quaderno_2_Altro900.pdf .
Tutto l’equivoco stava nell’avere identificato lo “sviluppo” dei popoli — l’accesso al cibo sufficiente, all’acqua pulita, all’istruzione, alla salute, al lavoro dignitoso, alla libertà — con la “crescita” del possesso di merci, soprattutto di quelle offerte dalla “società dei consumi” capitalistica, luccicanti e evanescenti, comprese le merci oscene come le armi sempre più potenti e distruttive.
Oggettivamente nel libro c’erano dei limiti (mi si perdoni il bisticcio) consistenti nel fatto che la popolazione mondiale veniva considerata un tutto unico, mentre esistevano (come esistono oggi) forti differenze fra i vari paesi nei tassi di crescita della popolazione, dei consumi e nella qualità “ecologica” dei consumi, con differenti effetti ambientali. Inoltre le scelte dei parametri delle equazioni differenziali che stavano alla base dei programmi di calcolo delle “curve” di previsioni portavano a brusche e improbabili variazioni delle grandezze considerate.
A me il libro fece comunque una grande impressione perché proponeva una analisi dei rapporti fra grandezze, come risorse naturali, produzione di merci agricole e industriali, inquinamento, che erano proprio l’oggetto di studio della mia disciplina, la Merceologia. Ricordo di avere scritto un articolo col titolo: “Società stazionaria e risorse” nel fascicolo n. 46 della rivista “Futuribili”, 1972: «L’idea di una società stazionaria nella produzione di beni materiali e nella popolazione ha come presupposto la distribuzione di tali beni materiali secondo giustizia e una distribuzione dei beni materiali secondo giustizia può aver luogo in due modi, o assicurando a tutti la “felicità” assicurata dai consumi medi degli Americani o degli Europei di oggi, con la conseguenza di un disastro ecologico senza limiti, o stabilizzando i consumi ad un qualche livello superiore a quello attuale dei paesi poveri, ma inferiore a quello attuale dei paesi ricchi … industralizzati i quali dovrebbero affrontare un processo di “de sviluppo”. Ed ecco che la proposta di una società stazionaria, se vuole essere coerente, finisce in questa parola, oggi scandalosa, che evoca concetti di continenza ed austerità in nome del diritto dei poveri ad avere una giusta porzione dei beni della Terra e in nome del dovere di tutti gli uomini di conservare una Terra che possa essere abitabile anche per le generazioni future. D’altra parte, per definizione, direi, la mancanza di una distribuzione secondo giustizia non permette alla auspicata nuova società di essere stabile e quindi stazionaria. Forse c’è da cercare una nuova filosofia della società stazionaria nel cristianesimo, con la sua motivazione morale verso la continenza nei consumi, l’aspirazione alla giustizia nella distribuzione dei beni, la dissuasione da un accrescimento irresponsabile della popolazione che oggi appare l’atto con cui, attraverso l’eccessivo sfruttamento della terra, si toglierà al ‘prossimo del futuro’ la possibilità di uno sviluppo umano integrale».
In questa parole sul ruolo della società cristiana nell’affrontare i problemi ecologici planetari si sente il riflesso delle encicliche seguite al Concilio Vaticano II (1962-1965), dell’enciclica “Populorum progressio” (1967) di Paolo VI, e dell’enciclica “Humanae vitae” (1968), dello stesso Paolo VI, con l’invito ad una “paternità responsabile”.
D’altra parte che una società stazionaria non avrebbe potuto durare a lungo fu sostenuto dall’economista Nicolas Georgescu-Roegen in vari saggi del 1973-74, tradotti anche in italiano, sulla base di considerazioni termodinamiche. Il continuo aumento della dispersione, dell’entropia, che accompagna i processi di produzione e di uso non solo dell’energia, ma anche della materia, fa sì che lo stato a cui si tenderà, con la crescita economica, non sia quello stazionario, ma uno di declino: «l’attuale processo di crescita deve giungere a un termine, anzi rovesciarsi». Le considerazioni, fisicamente inoppugnabili di Georgescu-Roegen hanno poi dato vita ai movimenti della “decrescita”, un termine bene accolto in alcuni ambienti di ecologisti, anche se raramente viene chiarito chi e che cosa deve decrescere.
Comunque il contenuto rivoluzionario dei limiti alla crescita fu stemperato dalla pubblicazione, alcuni anni dopo, nel 1987, del rapporto “Our Common Future”, curato dalla parlamentare norvegese Gro Brundtland, il quale ha lanciato il concetto di sviluppo sostenibile, definito, secondo il libro, come: «Development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs» (Uno sviluppo che soddisfi i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni). Ma neanche questo è possibile perché, come si è detto prima, la stessa produzione, non solo la “crescita”, e l’uso dei beni materiali, comportano un impoverimento delle risorse che lasciamo alle generazioni future e un peggioramento della qualità dell’ambiente — dell’aria, delle acque, del suolo coltivabile, delle foreste — in cui esse vivranno.
La più vistosa conferma delle tesi sui limiti alla crescita è offerta dai mutamenti climatici. La crescente produzione di energia provoca una crescente modificazione della composizione chimica dell’atmosfera e quindi un lento e graduale aumento della temperatura media della Terra (l’effetto serra); ne derivano la fusione di una parte dei ghiacciai e un aumento del livello dei mari e degli oceani, l’avanzata dei deserti in alcune zone del pianeta e, in altre, devastanti piogge che provocano alluvioni e frane, la perdita di terreni agricoli e la diminuzione della disponibilità di alimenti. Un altro effetto della crescente produzione agricola e industriale, pur necessaria per soddisfare necessità umane, è offerto dall’impoverimento delle sostanze nutritive nelle terre agricole, dall’impoverimento delle riserve di petrolio, carbone, gas naturale, e anche di minerali.
Le contraddizioni fra necessità umane e bisogni futuri possono essere superate, almeno in parte, ripensando i modi di produzione e di consumo, soprattutto dei paesi ricchi, come raccomanda l’enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco, mediante innovazioni “neotecniche” che permettano di consumare meno energia, di inquinare di meno. Solo una continenza e una modifica dei consumi e degli sprechi dei ricchi può assicurare ai poveri di uscire dallo stato di miseria che li affligge con minore violenza alla Natura e con minori conflitti.
L’articolo è tratto da .eco, 39, (234), n. 1 marzo 2018, p. 6-9