Torino 1922: una strage fascista e la regola dell’impunità

Volerelaluna.it

16/12/2022 di:

Il 18 novembre 1971 muore, nella clinica Fornaca di Torino, a 78 anni appena compiuti, Piero Brandimarte, capo delle squadre fasciste, come annuncia il giorno dopo La Stampa, in coincidenza dello svolgimento dei funerali. Alla cerimonia partecipano anche alcuni nostalgici fascisti della Milizia e compaiono labari pieni di aquile fasciste e di medaglie. Quello, però, che ancora sconcerta di più, a tanti anni di distanza, sono gli onori militari resi alla salma da un gruppo di bersaglieri del 22° Reggimento fanteria della Divisione Cremona, cioè da soldati della Repubblica italiana nata dalla Resistenza. Il destino vuole che la clinica Fornaca, una delle più raffinate di Torino, sorga nel cuore della Crocetta, in corso Galileo Ferraris, all’angolo con corso Vittorio Emanuele II. Al “padre della patria” è dedicato il monumento che si erge al centro dell’incrocio e ai suoi piedi, il 18 dicembre 1922, le squadracce fasciste, capitanate da Brandimarte, abbandonano, rantolante, con il volto sfigurato, l’anarchico Pietro Ferrero, segretario del sindacato metallurgici, fatto oggetto di una bestiale ferocia. È stato trascinato per i piedi, torturato, gli sono stati sparati due proiettili a pochi centimetri dal viso. Soccorso da un passante, giunge già morto all’ospedale San Giovanni. È possibile identificarlo solo grazie alla tessera della Croce Verde che ha in tasca.

Pietro Ferrero è una delle vittime della strage di Torino, di cui la città celebra in questi giorni il centenario con una nutrita serie di iniziative. Fra il 18 e il 19 dicembre, prendendo a pretesto la morte di due esponenti fascisti, Dresda e Bazzani nel corso di un conflitto a fuoco – i cui motivi sembrano essere stati più personali che politici – con il comunista Francesco Prato, si abbatte sulla città un’azione di inaudita violenza, annunciata dall’affissione sui muri della città di manifesti, firmati appunto da Brandimarte, in cui si invitano i fascisti alla mobilitazione e alla vendetta. La rappresaglia, compiuta nella città operaia per eccellenza, ha, ovviamente, un obiettivo politico ben preciso e condiviso dagli alti vertici del fascismo: dare un inequivocabile messaggio ai comunisti, ai socialisti, agli anarchici sulle terribili conseguenze a cui vanno incontro se persistono nella loro tenace opposizione al regime. Vengono ammazzati undici antifascisti, molti altri sono feriti e altri si salvano solo perché riescono a salire sul primo treno che trovano in partenza da Porta Susa. Fra questi ultimi c’è anche Filippo Acciarini, impiegato delle ferrovie e giornalista, deceduto nel campo di concentramento di Mauthausen il 2 marzo 1945. Nei giorni successivi sulle pagine dell’Avanti! – che, insieme all’Unità , s’impegna a conservare la memoria della strage – Acciarini mette in risalto il clima di quei giorni e il silenzio che circonda le esequie delle vittime: «I due morti di parte fascista furono condotti all’estrema dimora fra onoranze che assunsero l’aspetto di una apoteosi. Gli undici umili morti saranno trasportati al cimitero furtivamente, senza seguito di amici, senza discorsi, senza fiori. Così si usava, quando vigeva la pena capitale, per i delinquenti giustiziati dalla mano del boia. Così si usa oggi per innocenti, uccisi a sangue freddo in espiazione di una colpa commessa da altri». Non solo il silenzio, ma anche una tempestiva amnistia a pochi giorni dalla strage, prevista in un decreto del 22 dicembre, permettono a mandanti ed esecutori di farla franca.

È, quindi, ben comprensibile che dopo la caduta del fascismo si alzi forte la voce di coloro che chiedono giustizia e una severa punizione per Brandimarte, il quale, oltretutto, ha anche aderito con entusiasmo alla Repubblica Sociale Italiana ed è stato arrestato il 29 maggio 1945 dal partigiano piemontese Leonardo Berardi. Nell’agosto del 1943 era già stato ristampato l’opuscolo di denuncia scritto dall’avvocato Francesco Répaci all’indomani della strage e, nel periodo successivo alla Liberazione, i socialisti, i comunisti e, in generale, gli antifascisti rievocano sui loro giornali il terribile fatto di sangue e invocano una sentenza esemplare, che, purtroppo, non ci sarà.

Il primo atto che comincia a metterla in discussione è lo spostamento del processo a Firenze per “legittima suspicione”: i giudici, cioè, ritengono che Torino non sia la sede adatta per l’assenza del clima di serenità necessario e per il rischio di disordini. A nulla valgono gli appelli – a Ferruccio Parri, presidente del Consiglio, e a Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia – e le numerose manifestazioni di piazza contro tale decisione: il processo si svolge a Firenze. La sentenza di primo grado viene pronunciata nel 1950 e Brandimarte è riconosciuto colpevole di concorso in tutti gli omicidi. La pena, di per sé severa, di 26 anni e 3 mesi gli viene però condonata – in base alle leggi vigenti – di due terzi più un anno. L’imputato e gli avvocati difensori aspirano – e non sbagliano – a qualche cosa di ancora più favorevole e presentano appello. Così il 28 aprile 1952 la Corte d’assise d’appello giunge ad assolvere Brandimarte per “insufficienza di prove”.

Ritornato libero, l’ex-console della Milizia fascista ha ancora davanti a sé un congruo numero di anni per godersi la pensione da generale e concludere agiatamente la propria vita nel modo e nel luogo di cui si è detto. Che nella sua azione delittuosa non sia stato solo, che abbia potuto contare sull’appoggio di alti vertici romani e sulla benevola indifferenza di alcuni apparati dello Stato, non toglie nulla al valore simbolico che questa quieta fine e gli onori militari tributati alla salma hanno avuto nella coscienza collettiva degli italiani. Come osserva Bruno Maida nel libro scritto con Nicola Adduci e Barbara Berruti, La nascita del Fascismo a Torino (Edizioni del Capricorno, 2020), «memoria e giustizia dovrebbero sempre procedere parallele o per lo meno non prendere strade diverse. Come sappiamo nel caso del fascismo di rado è stato così e il secondo dopoguerra è stato segnato casomai dall’assenza di giustizia e da un’amnistia che ha troppo spesso avuto il carattere dell’amnesia».

Di tante reticenze, omissioni, amnesie paghiamo ancora le conseguenze.