«Camminare fra Monte Sole e Sant’Anna di Stazzema è un viaggio di meditazione su aspetti fondativi della convivenza umana in una democrazia. Si attraversano i luoghi della resistenza e delle stragi, si ripercorrono i sentieri dei partigiani, ma anche quelli dei soldati tedeschi e dei loro alleati fascisti. In venti mesi, fra il settembre del ’43 e la primavera del ’45, su queste montagne fra l’Emilia e la Toscana convissero il peggio della guerra e il meglio della ribellione al fascismo e all’occupazione tedesca. Le numerose stragi di civili inermi lasciarono un segno indelebile. La memoria di quei giorni è preziosa e dev’essere ancora scandagliata e compresa fino in fondo». È l’incipit dell’introduzione del libro Camminare l’antifascismo. La memoria come ribellione all’ordine delle cose, di Lorenzo Guadagnucci (Edizioni Gruppo Abele, 2022), frutto dell’esperienza delle Camminate per la pace organizzate dalle locali sezioni dell’ANPI. «Il viaggio condensato nel libro – prosegue l’autore – è un’esplorazione, uno scavo nelle profondità della storia e quindi un’occasione per ripensare ciò che chiamiamo antifascismo, al fine di renderlo ancora più vivo, cioè all’altezza dei tempi. È un percorso civile e politico da compiere con animo libero e aperto al nuovo». Per questo ne proponiamo la pagina iniziale, particolarmente significativa in giorni in cui il fascismo e i suoi eredi si ripropongono per il governo del Paese. (la redazione)
Ferruccio ha il volto rugoso dei vecchi di campagna. Pelle scura consumata dal sole, Ferruccio è segaligno, vestito da contadino: pantaloni grossi, camicia a quadretti con maniche lunghe, come se l’afa dell’estate non lo riguardasse. È in piedi, appena discosto da uno dei lunghi tavoli sotto la grande veranda dell’isolata locanda. Siamo al Poggiolo di Monte Sole.
Ferruccio è ritto e si guarda intorno senza fissare niente e nessuno, non si sofferma sulle persone che sono lì per ascoltarlo. Quasi non le vede, forse perché parla e in realtà si rivolge al mondo, a chi non c’è, a chi non sa, a chi dovrebbe sapere. Ferruccio ha gli occhi chiari e lo sguardo innocente dei buoni, se non fosse per un velo d’ansia, forse d’angoscia, che fatica a celare. Ferruccio è un sopravvissuto. Arriva a noi da un’altra epoca, il tempo dei contadini di montagna, gente capace di campare in cima all’Appennino, terra avara di risorse. Viene dal tempo della guerra, passata qui con furia inattesa e imprevista, spazzando via come presenze fastidiose e inutili i civili, la gente comune, i disarmati.
È una mattina d’estate e Ferruccio racconta quel che visse e che vide. Era la fine di settembre, anno 1944. Aveva sedici anni, pochi per dirsi uomo fatto, abbastanza per temere il rastrellamento. «Ci dissero che arrivavano i tedeschi e io, con altri, andai a nascondermi nel bosco». Si faceva così, in quei giorni: gli uomini a cercare rifugio fra gli alberi, sicuri di non essere inseguiti, ché i tedeschi non andavano a caccia di partigiani in campo aperto; le donne, i bambini e i maschi più vecchi a casa, a mostrarsi inermi e rassegnati ai soldati, nella convinzione, o nella speranza, d’essere lasciati in pace.
Ferruccio parla, gli occhi via via più lucidi e intrisi di sgomento. Occhi di spavento. «Dal bosco non vedevamo quel che succedeva, ma sentivamo e qualcosa capimmo». Non era un normale rastrellamento. Troppi spari, troppe colonne di fumo da case e fienili in fiamme. Non si illusero, quella notte, trascorsa al riparo del bosco. «La mattina tornammo al casale». Ferruccio stavolta esita. Rallenta il suo parlare, gli occhi si riempiono di lacrime. Non sa decidere se andare avanti. «Lo sapete com’è andata. Nell’aia, davanti alla casa, c’erano i corpi delle nostre donne, dei nostri familiari». Ferruccio si blocca e fa un gesto con la mano come se volesse allontanare la vista di quel giorno; intanto volta il capo e punta lo sguardo di lato verso il vuoto. Altre volte ha raccontato quel che ha visto e vissuto, un orrore trattenuto per decenni e poi uscito dal suo cuore di uomo ormai divenuto anziano. Quel giorno di fine settembre del ’44, una giornata fredda e piovosa, Ferruccio perse i genitori, due fratelli e due cognate, nove nipoti. Da ragazzo qualunque travolto dalla storia e incapace di prendere parola, si è piano piano trasformato in testimone di un crimine di guerra, ma parlare e raccontare è sempre faticoso, quasi innaturale. Quindi si ferma. Ha detto abbastanza e poi la storia è nota.
Salire a Monte Sole oggi, settanta e più anni dopo la strage detta di Marzabotto, significa passare da qui, dall’unica locanda che offra letto e cibo a un’umanità viandante. Alcuni sono naturalisti e appassionati di trekking, attratti dal Parco fondato su queste alture, ma i più sono camminatori della memoria, persone curiose di storia, cittadini che si sentono coinvolti da una vicenda del passato ancora capace di trasmettere sentimenti e passioni. A pochi passi dalla locanda, sempre lungo il crinale, c’è un ostello, la Scuola di pace, uno spazio d’incontro aperto a chi vuole ragionare su come la guerra è passata da queste parti e su come si potrebbe e dovrebbe cambiare il corso della storia, verso una rotta nuova, lontano dalle guerre, così deprecate a parole ma così comuni, così normali. Poco più in là, a qualche minuto di cammino, in vecchie case contadine restaurate, unico insediamento abitato tutto l’anno, ci sono i frati e le suore della Piccola Famiglia dell’Annunziata, l’ordine fondato e guidato fino alla sua morte da Giuseppe Dossetti, il politico e padre costituente che si fece monaco.
Tutt’intorno, invisibili alla vista ma ben presenti nell’aura silenziosa e sinistra di questi spazi puliti, i luoghi descritti nei libri di storia dedicati al “massacro”: Cerpiano, Casaglia, Caprara di sopra e Caprara di sotto, Pioppe di Salvaro, Cadotto e tanti altri. Gruppi di case, piccoli agglomerati, minuscole frazioni: decine di luoghi, in tutto 115, ciascuno carico di racconti di morte e di orrore. Ne restano solo pietre. La montagna è deserta, incolta e disabitata. L’esodo verso la pianura e le città degli anni del boom economico in questo caso non c’entra; la gente ha abbandonato Monte Sole già al tempo della guerra e della strage, o subito dopo. Troppo sangue, troppo dolore. Giorgio Diritti ha raccontato nel suo film L’uomo che verrà la fine di una storia, la dura epopea di questa gente di montagna, il mondo di Ferruccio e dei suoi amici, familiari, compaesani. Non c’è altro da aggiungere a quel film: lì si capisce che una linea di tensione si spezza nei giorni dell’eccidio; le famiglie, le reti umane e le comunità dell’alta valle del Reno non riescono più a sorreggersi, a mantenere quell’unione, quella fedeltà al proprio spazio fisico e mentale che rende possibile, seppure difficile, la vita in montagna.