Il Parlamento europeo, il 25 ottobre 2018, ha approvato una risoluzione relativa all’aumento della violenza neofascista in Europa in cui ricorda che «l’ideologia fascista e l’intolleranza sono sempre associate a un attacco alla democrazia stessa». Negli ultimi anni, tra i tanti episodi di rinvigorito attivismo di gruppi neofascisti, è stato un attacco alla democrazia l’assalto alla sede della CGIL di Roma da parte di militanti di Forza Nuova, del cui scioglimento, come di quello di CasaPound, già molto si è detto (e poco si è fatto); è stata un attacco alla democrazia l’aggressione, avvenuta nel settembre 2018, nei confronti di un gruppo di manifestanti antifascisti, a Bari, al termine di un corteo organizzato per la visita dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, da parte di 18 attivisti di CasaPound, rinviati a giudizio il 15 aprile 2022 per i reati di riorganizzazione del disciolto partito fascista e lesioni aggravate. Si legge nella richiesta di rinvio a giudizio che, in quella occasione, «è stata usata la violenza come strumento di lotta politica, che è tipica dello squadrismo, storicamente manifestazione del partito fascista». In un contesto di tale gravità, di cui quelli ricordati sono solo esempi, appare oggi più che mai necessario soffermarsi a ricordare, alla vigilia del 25 aprile, quel patto fondativo antifascista che ha dato forma specifica alla fase costituente e che rappresenta la premessa valoriale a partire dalla quale il nostro ordinamento ha trovato origine.
Nella Costituzione repubblicana la “questione fascista” prende forma esplicita nella XII disposizione transitoria e finale, il cui primo comma sancisce il divieto di ricostituzione «del disciolto partito fascista». Si tratta di una norma che enuncia un principio generale, la cui portata può stabilirsi solo guardando al quadro delle esigenze politiche e sociali da cui fu ispirata. «Nell’interesse del regime democratico che si andava costituendo, è stata infatti riconosciuta la necessità di impedire che si riorganizzasse in qualsiasi forma il partito fascista, il cui assetto si pone in pieno contrasto con il sistema di diritti e libertà fondamentali garantiti dalla Costituzione» (Corte costituzionale n. 1 del 1957).
Si rinviene quindi in questa norma, da un lato, un chiaro riferimento al passato: netto è il rifiuto dell’eredità fascista. Al tempo stesso, però, con la sua formulazione, i costituenti si sono preoccupati di dettare una soluzione aperta al futuro: con la dizione “sotto qualsiasi forma”, si è voluto infatti vietare la ricostituzione di partiti o movimenti che, sotto qualsivoglia nome, professino l’ideologia fascista. Sono quindi i simboli, i principi, i metodi di azione fascisti a essere stati spogliati della tutela costituzionale delle libertà che la Carta fondamentale garantisce a tutti coloro (e solo a coloro) che si pongono all’interno di queste premesse fondative e che si riconoscono in un sistema pluralista e nella dialettica democratica che ne sono alla base. Proprio da questa dialettica il partito e l’ideologia fascista sono stati esclusi dopo essere stati sottoposti, con esito negativo, a un vaglio storico. A partire da tale esclusione, i costituenti hanno quindi lavorato, in positivo, affinché dalla negazione della tragica esperienza vissuta sotto quel regime potesse emergere un sistema di valori comuni, incentrati sul mutuo consenso al rispetto delle posizioni reciproche, sul riconoscimento e la garanzia delle libertà e dei diritti fino a quel momento sistematicamente negati, sul ripudio della guerra, nonché sulla necessità della più ampia partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.
Ben emerge tale prospettiva dalla discussione tenutasi in Assemblea costituente con riguardo al ruolo costituzionale dei partiti: nella seduta del 19 novembre 1946, dibattendo della formulazione di quello che sarebbe stato l’art. 49 della Costituzione, Togliatti afferma infatti chiaramente che, se in generale sarebbe stato opportuno astenersi dal prevedere controlli o limiti giuridici a cui sottoporre i partiti – e che al più la “lotta” tra gli stessi si sarebbe dovuta ricondurre all’interno di una competizione politica democratica e pluralista – per i gruppi che in futuro avessero aderito all’ideologia propria del regime fascista non si sarebbe potuta che seguire la linea opposta: «si deve escludere – dichiara infatti – dalla democrazia chi ha manifestato di essere suo nemico».
Nell’introdurre tale limite di carattere ideologico programmatico, i costituenti, lungi dal contrapporsi ai principi fondamentali riconosciuti e garantiti dalla Costituzione, li hanno confermati, esaltando il rapporto antitetico tra l’ordine democratico e tale tipo di regime. Il carattere antifascista della Costituzione, così interpretato in un significato che la qualifica in modo permanente, richiede allora, oggi più che mai, di essere ribadito, soprattutto alla luce della presenza di forme associative neofasciste che rappresentano un (più o meno potenziale) pericolo: ciò, non tanto per l’evidente maggiore facilità di (ri)affermazione di un movimento che ha dominato totalitariamente per oltre un ventennio il nostro Paese e che, quindi, può contare su più facili e possibili connivenze, quanto, piuttosto, perché un’involuzione di tipo autoritario non è il frutto casuale di eventi storici irripetibili, ma è una sempre immanente minaccia in qualsiasi sistema politico liberal-democratico.