Il fascismo eterno. Un rilettura di Umberto Eco

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«Ricordate che quello che è stato, in futuro,
con il sonno della ragione e la mancanza di memoria,
potrebbe ripetersi e verificarsi nuovamente»
(Primo Levi)

1.

La Lettera Enciclica di Papa Francesco, intitolata Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale (qui citata nella edizione Marsilio, 2020), offre moltissimi spunti di riflessione, che vanno ben al di là del piano teologico. Tra questi, vi è anche un’insistente e quanto mai opportuna difesa della coscienza storica e – vivaddìo!, è proprio il caso di dirlo – dello spirito critico, senza i quali si rischia un pericoloso “decostruzionismo”, che non riconosce il valore “magistrale” della storia, e «pretende di costruire tutto a partire da zero» (par. 249, p. 222). Il Pontefice dedica alcuni passaggi decisivi alla memoria, laddove ad esempio afferma con forza che il perdono, pur necessario, non implica mai il dimenticare, poiché senza il ricordo non si può andare avanti: «Non si cresce senza una memoria integra e luminosa». Parole importanti, che si inseriscono nell’ampio dibattito sul ruolo della storia, che dopo lustri di retoriche post-moderne sull’eterno presente, sembra recuperare la centralità che merita. Il punto è proprio questo: senza memoria non c’è futuro! Sapere da dove veniamo è fondamentale per comprendere dove possiamo e dove vogliamo andare. Inutile e pericoloso cercare improbabili scorciatoie. Le pagine nere del nostro passato non possono essere né rimosse, né banalizzate, né travisate strumentalmente. Eppure la cronaca quotidiana ci ripropone con una certa continuità maldestri tentativi in tal senso. In particolare, la tragedia criminale del nazifascismo è oggetto di continue “revisioni”, distorsioni, riproposizioni mascherate. Non è qui il caso di soffermarsi sui singoli episodi, anche per non dare soddisfazione alla ricerca di visibilità che molti protagonisti di quegli stessi fatti bramano spasmodicamente. Assai funzionale in tal senso il revisionismo toponomastico, che ben evidenzia quanto ancora pesi l’eredità fascista in alcune parti del nostro Paese e come l’anima oscura che lo attraversa sia, ahinoi, ancora forte e radicata.

Più utile, credo, ragionare nell’ambito del dibattito storiografico – di nuovo e senza posa – sullo “statuto” e sulle categorie del fascismo, questione tra le più complesse e tuttora controverse. Per farlo, un riferimento imprescindibile rimane certamente la tesi di Umberto Eco sul fascismo eterno, argomentata mirabilmente in una celebre conferenza tenuta in inglese a un simposio organizzato il 25 aprile 1995, in memoria della liberazione dell’Europa, dai Dipartimenti di francese e italiano della Columbia University. Il testo – che come l’autore stesso ricorda, è stato pensato in inglese per degli studenti americani, in un’America scossa dall’attentato di Oklahoma City – è stato poi tradotto in italiano, e recentemente riproposto grazie a un’interessante e acuta scelta editoriale de La nave di Teseo.

2.

Lo scritto è molto noto e lo richiamerò soltanto a grandi linee. La parte iniziale è dedicata, con uno stile ironico e passaggi anche molto divertenti, ai riferimenti di Eco alla sua infanzia e alla sua giovinezza, che bruscamente vira dall’educazione fascista alla scoperta della libertà, a partire dall’incontro con i soldati americani durante la liberazione di Alessandria, e alla successiva “rivelazione” della pace, una condizione del tutto inedita dopo lustri di vuota retorica belligerante in camicia nera. La sottolineatura dell’alto valore morale e psicologico (ancor più rilevante dell’impatto militare) della Resistenza apre poi la riflessione teorica dell’autore: «In Italia c’è oggi qualcuno che dice che la guerra di liberazione fu un tragico periodo di divisione, e che abbiamo ora bisogno di una riconciliazione nazionale. Il ricordo di quegli anni terribili dovrebbe venire represso. Ma la repressione provoca nevrosi. Se riconciliazione significa compassione e rispetto per tutti coloro che hanno combattuto la loro guerra in buona fede, perdonare non significa dimenticare. Posso anche ammettere che Eichmann credesse sinceramente nella sua missione, ma non mi sento di dire: “Okay, torna e fallo ancora”. Noi siamo qui per ricordare ciò che accadde e per dichiarare solennemente che “loro” non debbono farlo più. Ma chi sono “loro”?».

Ecco la questione fondamentale. Che cos’è il “fascismo”? Come lo si può e lo si deve interpretare? Che cosa sia stato lo sappiamo bene, anche se alcuni tendono a dimenticarlo. Che cosa, invece, sia oggi è questione più discussa. Quando parliamo di fascismo ci riferiamo (solo) a una realtà storicamente determinata, confinata nei regimi totalitari tra le due guerre mondiali del Novecento, oppure a un modo di pensare e sentire, a un’abitudine culturale, a un insieme di istinti, pulsioni e idee che hanno una valenza “meta-storica”, e che quindi sono destinati e durare? Si tratta di un fenomeno storico circoscritto – che sia “rivelazione” dell’arretratezza del Paese, come nella lucidissima analisi di Piero Gobetti, o una “parentesi” nel corso liberale della storia nazionale, secondo la nota tesi di Benedetto Croce –, o è invece una “categoria dello spirito” che travalica i suoi confini cronologici? È una “retorica” che ha esaurito (fortunatamente) le sue parole, oppure un lessico buono per ogni ambizione liberticida e totalitaria? È qui che Eco introduce la sua categoria di fascismo “eterno”. Il regime mussoliniano, modello delle successive dittature di destra che hanno ammorbato l’Europa, non ha mai avuto un’identità forte. Con uno dei guizzi tipici della sua straordinaria intelligenza, l’autore alessandrino definisce il fascismo «un totalitarismo fuzzy», ossia sfocato, impreciso, confuso, dai contorni non ben definiti: non dunque un’ideologia monolitica, quanto piuttosto «un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni. Si può forse concepire un movimento totalitario che riesca a mettere insieme monarchia e rivoluzione, esercito regio e milizia personale di Mussolini, i privilegi concessi alla chiesa e una educazione statale che esaltava la violenza, il controllo assoluto e il libero mercato?». Un movimento “filosoficamente scardinato”, ma nient’affatto tollerante, esempio abbastanza evidente di «sgangheratezza politica e ideologica», e tuttavia – a suo modo – ben strutturato e organizzato intorno ad alcuni elementi chiari e ricorrenti che definiscono una sorta di archetipo culturale e politico, riassumibile – appunto – nel concetto di Ur-fascismo, o fascismo eterno.

Nella seconda parte del testo, Eco si sofferma quindi sulle caratteristiche ricorrenti, intersecate e compenetrate l’un l’altra, anche se talora in contraddizione reciproca, di questo fenomeno politico dai tratti ambivalenti, e tuttavia chiarissimo nella sua essenza di fondo, liberticida, autoritaria, oscura, appunto, come già ho scritto in principio. Nel catalogo proposto dall’autore alessandrino si ritrovano: a) il culto della tradizione e la fede in una verità rivelata ab origine, che deve solo essere correttamente individuata, interpretata, conosciuta e difesa, al di là delle sue manifestazioni apparentemente contraddittorie; b) l’irrazionalismo, o – più precisamente – il rifiuto del “modernismo” (più saldo e più forte dell’entusiasmo, talora pur presente, riguardo alla tecnologia) e dello spirito del 1789; c) il culto dell’azione per l’azione, il sospetto nei confronti del mondo intellettuale e l’ostilità verso la cultura e le sue “complicazioni”, dal momento che il dubbio paralizza e la riflessione rallenta la marcia; d) il rifiuto della critica e del dissenso, che viene letto come un “tradimento”; e) la paura della differenza, del pluralismo, e il conseguente corollario di chiusure xenofobe e di derive razziste, più o meno dispiegate; f) in considerazione, poi, del fatto che l’Ur-fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale, uno dei suoi elementi fondanti è proprio l’appello alle classi medie frustrate, «a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni»; g) altra caratteristica centrale, e coerente con gli elementi appena descritti, è la costruzione “oppositiva” di un’identità nazionale, che si determina e si definisce contro un nemico, interno o esterno alla comunità, il quale trama contro di essa (e da ciò deriva l’ossessione ur-fascista del complotto) e che viene ad assumere tratti stereotipati, tanto netti da annullare – peraltro – ogni possibilità di valutazione obiettiva della situazione reale (nonché dell’equilibrio effettivo delle forze in campo); h) contro questo nemico l’unica opzione possibile è una guerra permanente, sino alla vittoria “definitiva” – che cupamente richiama la soluzione finale; i) il conseguente culto dell’eroismo e della morte, che è intesa – appunto – come la migliore ricompensa per una vita eroica; l) un malcelato, e talvolta aperto, machismo, che implica spesso «disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all’omosessualità»; m) un forte spirito gerarchico, la devozione a un capo carismatico e un certo disprezzo per il parlamentarismo, incapace di interpretare e rappresentare correttamente la (presunta) “volontà comune” del popolo, che si sente “eletto” e che è plasmato e condizionato dalla TV e da Internet, strumenti micidiali di un populismo che Eco definisce “qualitativo” (poiché questo “popolo” non esiste di per sé, non “si conta” nelle urne, ma è un’idea che prende voce e forza nelle piazze e nelle parole dei leader che lo rappresentano; è dunque un’astrazione, una «finzione teatrale»); n) infine, l’uso di quella che l’autore, con un esplicito riferimento all’Orwell di 1984, definisce la “neo-lingua”, costituita da un lessico “povero” e da una sintassi “elementare”, funzionali a limitare quanto più possibile il ragionamento complesso e lo spirito critico.

Si conclude così l’articolato elenco delle caratteristiche fondamentali dell’Ur-fascismo, a cui la sintesi richiesta dalla forma della conferenza toglie un po’ di profondità analitica, ma di certo non lucidità, vivacità e ricchezza di spunti di riflessione. Si può e si deve ragionare su ciascuno di questi elementi, valutandone portata storica e persistenza nel dibattito pubblico attuale. Più discutibile mi pare, invece, l’affermazione di Eco secondo cui è sufficiente che uno solo di essi sia presente per far coagulare una «nebulosa fascista». Ciascuno dei punti elencati si può ricondurre facilmente anche ad altri fenomeni politici, e in realtà rischia di essere controproducente – per poterlo combattere in ogni sua forma – allargare troppo i “confini” di un fascismo che oggi ritorna con forza e che minaccia ancora le nostre fragili democrazie.

3.

Pur con questa precisazione, io ritengo che Eco abbia assolutamente ragione nel non circoscrivere il fascismo a un periodo storico determinato e (fortunatamente) concluso, e nell’individuare – al di là della specificità delle singole esperienze nazionali – una tendenza universale che coinvolge tempi e luoghi anche molto diversi. Il fascismo è sopravvissuto alla sua fragorosa caduta. In Italia parti considerevoli della struttura e soprattutto della mentalità del regime hanno retto al nuovo corso costituzionale, repubblicano e democratico, e hanno più volte tentato di ostacolarlo, inquinarlo, distorcerlo. Qui il discorso si ricollega alle osservazioni iniziali sul ruolo imprescindibile della memoria (e di una corretta e rigorosa ricerca storica). Non si può e non si deve dimenticare che il fascismo fu un regime totalitario che tolse la libertà agli italiani, perseguitò gli oppositori, collaborò al genocidio degli ebrei, commise crimini atroci nei Paesi occupati dalle sue guerre imperialiste e trascinò l’Italia in un conflitto lungo, tragico, devastante e insensato. Un passato infausto e scellerato con cui non si sono fatti i conti fino in fondo, con il risultato che in molti (certamente troppi) non hanno piena contezza della dimensione criminale di questo fenomeno politico. Ripercorrere e ricordare, a distanza di decenni, quanto accadde in Europa a metà degli anni Quaranta del Novecento, diventa allora non soltanto un dovere nei confronti della verità storica, ma un vero e proprio obbligo morale. Da un lato è fondamentale riconoscere e celebrare il coraggio di chi ha eroicamente combattuto contro la barbarie nero-bruna ed è caduto in nome della libertà e della giustizia, e dall’altro occorre riaffermare con forza e chiarezza i valori dell’antifascismo, che sono peraltro la base della nostra Repubblica e della nostra Costituzione, un prerequisito irrinunciabile della vita democratica del Paese. Tutte le istituzioni dovrebbero rimanervi saldamente ancorate. Ed è proprio la fedeltà ai principi fondamentali sanciti nella Carta costituzionale che oggi impone (un verbo volutamente forte) il rifiuto dei nuovi muri, dei “porti chiusi”, del razzismo, della meschinità, del rancore e della violenza dilaganti; dell’odio in ogni sua forma. Che impone, ora e sempre, il rigetto di ogni fascismo, quale che sia la sembianza che assume.

Se volgiamo lo sguardo all’Italia, la cronaca quotidiana ci pone di fronte alla recrudescenza di fenomeni culturali e politici riconducibili all’estrema destra. Sigle più o meno note, come Forza Nuova, CasaPound, Lealtà Azione, Veneto Fronte Skinheads, la galassia nazi-rock, etc. [non vorrei continuare oltre con questo catalogo dell’orrore], con i loro militanti, tornano a infestare le strade delle nostre città a cento anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento, sfruttando – come detto – la rabbia degli impoveriti, degli sconfitti della globalizzazione, il disagio urbano e scatenando una disumana guerra tra poveri. Si tratta con tutta evidenza di un fenomeno estremamente preoccupante, che sembra crescere di giorno in giorno: l’assalto ai rifugiati e ai migranti (nei confronti dei quali è stato compiuto un perverso capolavoro di mistificazione, con la rabbia degli impoveriti che si rivolge verso i subalterni e i marginali, e non verso gli happy few del capitalismo finanziario globale), l’attacco ai più deboli, primi fra tutti i rom, le minacce ai giornalisti, i travisamenti della realtà storica e il montante clima revisionista, che raggiunge il culmine con lo spregiudicato uso politico del dramma delle foibe.

Occorre allora una vasta, ferma e profonda risposta in nome dell’antifascismo, appunto. Senza confondere i piani (ossia lasciando fuori dal discorso la polemica politica contingente), e soprattutto senza sottovalutare e sminuire il pericolo del ritorno dello squadrismo nero, è necessario e urgente riflettere in profondità, comprendere ciò che sta accadendo, ridare senso alle parole e agire subito, su diversi livelli. Anzitutto, il fascismo, la sua apologia, è un reato perseguibile penalmente. Basti il riferimento alla legge Scelba del giugno 1952, attuativa della XII disposizione transitoria della Costituzione italiana, e ai successivi provvedimenti normativi che vanno in questa stessa direzione. E allora perché le organizzazioni neofasciste e neonaziste non sono ancora state messe fuori legge? Perché non sciogliere, senza indugi, i partiti e i movimenti che si richiamano in modo esplicito al ventennio? Procediamo subito, prima che sia troppo tardi. Il fascismo – come ricordava, citando Giacomo Matteotti, il presidente Sandro Pertini – non è un orientamento politico alternativo agli altri; è semplicemente un crimine, un’opzione vietata dalla Costituzione repubblicana.

Certo, la risposta giuridica, da sola, non può bastare. Anche perché, accanto a un fascismo disvelato e sguaiato, si fa strada un neo-nazionalismo più subdolo, una pericolosa deriva autoritaria, un fastidio crescente, in nome di una fantomatica disintermediazione, verso ogni forma di “mediazione” sociale e politica, appunto; un’evidente primitivizzazione dell’agire politico che porta con sé la crisi, per alcuni irreversibile, della democrazia rappresentativa. Certi tratti essenziali propri dell’ideologia fascista, che Eco peraltro richiamava nella conferenza che abbiamo preso in esame, trovano molto spazio nel dibattito pubblico (e, ahinoi, anche nel sentire comune): la paura della differenza, del diverso, la ricerca ossessiva di un nemico, il fastidio verso l’informazione libera, il rifiuto della critica, la devozione al capo. Occorre dunque una risposta convincente sul piano politico e sul piano culturale. Bisogna ridare forza e slancio alla partecipazione democratica. Occorre trovare soluzioni concrete al disagio e alla frustrazione dei cittadini. Porre un argine al neoliberismo e alla logica del profitto senza freni e senza limiti. Risignificare il lessico politico della nostra epoca confusa. Pensare forse a un nuovo umanesimo radicale e inclusivo, lontano dalle retoriche dello scontro di civiltà e dal monologo dell’Occidente, e capace di coniugare le diversità in una polifonia virtuosa.

Riservando però ad altra sede la riflessione sulle possibili alternative strutturali di società, concludo col ribadirne la tesi di fondo: è necessario, ora più che mai, dare nuova forza e nuovo slancio ai valori fondanti della nostra comunità, nata dalla Resistenza antifascista, dalla lotta partigiana, dalla sete di libertà, che – per citare Calamandrei – «è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». Prezioso, in tal senso, il monito con cui Eco conclude la sua conferenza sul fascismo eterno: «L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: “Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!” Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo. […] Libertà e liberazione sono un compito che non finisce mai. Che sia questo il nostro motto: “Non dimenticate”».

Proprio così, libertà e liberazione sono un compito che non finisce mai! Nient’altro da aggiungere.

L’articolo, corredato di note e bibliografia, può leggersi in Quaderno di storia contemporanea 
dell’ISRAL, l’Istituto storico della resistenza, n. 70.

Gli autori

Giorgio Barberis

Giorgio Barberis è docente di Storia del pensiero politico contemporaneo nell’Università del Piemonte orientale e vicedirettore dell’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria. È autore di numerosi volumi e saggi nell'ambito della storia e della filosofia politica contemporanee.

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One Comment on “Il fascismo eterno. Un rilettura di Umberto Eco”

  1. esiste anche un Ur-comunismo e non se ne parla perché troppo scomodo o no ?

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