Gli anni della diffusione del virus Covid-19 hanno determinato una crisi sanitaria globale che in quanto tale si è dapprima interrelata e poi trasferita sul piano economico-sociale, politico e culturale acuendo in modo strutturale le profonde disuguaglianze già evidenti nel corpo della società contemporanea prima dell’avvento della pandemia.
In questo quadro il diritto alla salute, al lavoro e all’istruzione insieme alla giustizia sociale e all’uguaglianza di genere sono stati investiti di una nuova congiuntura negativa che ha modificato in senso regressivo il loro impianto e la loro applicazione materiale nella società. L’aumento esponenziale della povertà e della disoccupazione, la crisi dell’accesso ai sistemi scolastico-formativi, l’accelerazione dei processi di emarginazione di fasce e classi sociali sempre più ampie nonché l’accrescimento della frattura tra centro e periferie urbane, sociali, culturali hanno concorso e concorrono in modo sostanziale ad acuire la crisi del sistema di rappresentanza politica (come mostra la larga e preoccupante astensione di decine di milioni di persone dal voto e dalla partecipazione attiva alla vita pubblica del Paese) e con esso della democrazia repubblicana disegnata dalla Costituzione antifascista nata dalla Resistenza.
In questo contesto la riemersione non episodica di fenomeni neo e postfascisti evidenzia non solo la gravità estrema di manifestazioni esplicitamente eversive, come è stato l’assalto squadrista alla sede nazionale della CGIL, ma anche una pericolosa saldatura tra queste ultime e settori della società aggregatisi attorno ai cosiddetti movimenti no-Vax e no-Green pass. Gruppi e formazioni neofasciste si sono collocate negli interstizi della crisi tentando da un lato di egemonizzare le piazze come elemento tattico e poi di provocare una rottura più strategica all’interno del mondo del lavoro. Rientra in quest’ottica il raid contro la CGIL del 9 ottobre che precedeva di pochi giorni l’entrata in vigore del green pass (15 ottobre) nelle fabbriche, negli uffici e nei posti d’impiego e che aveva alimentato malcontento e diffidenza in una parte non marginale di lavoratrici e lavoratori. Seppur fallito, nonostante episodi come quelli del porto di Trieste, il tentativo evidenzia non solo la non episodicità degli accadimenti ma anche la correlazione tra crisi sociale, mancate risposte da parte delle istituzioni della Repubblica e riemersione identitaria fascista.
Su questo punto è evidente la responsabilità del Governo in carica che con misure involutive come lo sblocco dei licenziamenti, il sottofinanziamento della sanità e della scuola, il progetto di liberalizzazione dei servizi pubblici (dai trasporti all’acqua) e la riforma del fisco (disegnata non secondo il dettato costituzionale della progressività delle imposte ma a favore dei ceti medio-alti) non solo non offre risposte ma avvia, sull’onda della crisi, una ristrutturazione liberista degli assetti sociali del Paese.
Le impellenti necessità del momento richiedono risposte politiche di chiaro segno democratico e partecipativo che siano in condizione di coinvolgere la più ampia parte della popolazione e della società nelle scelte strategiche che sono all’ordine del giorno tanto sul piano sanitario (il diritto di tutte le persone a livello globale ad accedere ai vaccini) quanto su quello sociale (in ordine alla gestione trasparente e costituzionalmente garantita del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) quanto, infine, su quello complessivo dei diritti della persona.
L’antifascismo e l’eredità costituente della Resistenza rappresentano oggi due fattori centrali di una risposta generale sia al riemergere dei movimenti fascisti ed eversivi dell’ordine democratico (che in ragione di questa identità incompatibile con la Costituzione devono essere sciolti d’urgenza dal Governo) sia alla crisi di sistema che attraversa la società nel suo insieme.
Porre al centro del dibattito l’antifascismo come “teoria dello Stato” (ovvero organizzazione di un nuovo patto collettivo incentrato sui diritti della persona nella collettività) significa oggi attualizzarne contenuti e azione in termini di applicazione integrale della Costituzione, allargamento dei diritti sociali e civili, contrasto ai fenomeni di disgregazione e impoverimento sociale e culturale nonché dell’emancipazione di genere.
Parafrasando la nota formula gramsciana possiamo dire che se è vero che il vecchio mondo sta morendo e il nuovo non è ancora nato è indispensabile agire nello spazio di mezzo per evitare il ritorno dei mostri.
I punti critici segnalati sono giusti, importanti e significativi, persino opprimenti, Per quello che riesco a vedere io, purtroppo, è però lo stesso sistema democratico a non essere più tale per scelta globale neoliberista, per volontà di un centro finanziario prima che politico che teme fortemente la sovranità popolare. Perché andare a votare se la sovranità di un popolo è annichilita da necessità “superiori” e se la rappresentanza parlamentare è sempre più erosa e meno incisiva? Lo Stato come lo hanno inteso i padri costituenti non esiste più: i diritti individuali vengono esaltati da un neoliberismo liquido (Zygmunt Bauman) e, di fatto, arretrano ovunque di fronte a imposizioni di priorità “collettiva” che una volta avremmo probabilmente additato come pericolose manifestazioni marxiste o nazionalsocialiste. Si parla già di abolizione della proprietà privata, ma di fatto il privato arretra non per arricchire uno Stato solidale di stampo sociale, bensì per essere incamerato da realtà gestionali finanzcapitaliste che si sono sostituite alla mano pubblica perché “lo vuole il mercato”. L’Europa mi sembra sulla strada della Grecia del 2011, miope ed incredula di fronte all’avanzamento non di un neofascismo di strada, bensì di un fascismo di Stato con statisti tali solo di nome, di fatto solo burattini di chi punta a crescita e neoliberismo anche in settori come istruzione e sanità. Ditemi pure che sono pazzo: magari riuscite a convincermi!